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Tutta la storia del Regno Unito nell’Unione Europea. Terza puntata

L’uomo da tutti considerato il Padre della Gran Bretagna europea è, sorprendentemente, un Conservatore. Edward Heath riuscì nell’impresa fallita da MacMillan e Wilson grazie anche al suo rapporto di personale amicizia con Michel Jobert, il segretario particolare del Presidente francese Georges Pompidou, e al lavoro della sua squadra di negoziatori guidata da Geoffrey Rippon. Heath riuscì a portare il Regno Unito al traguardo dell’ingresso nella Comunità il 1° gennaio 1973. Le negoziazioni non furono brevi nemmeno questa volta: le questioni relative ai prodotti caseari neozelandesi, l’erosione del territorio riservato esclusivamente ai pescatori britannici e, più in generale, il prezzo del cibo proveniente da Oltremanica occuparono le trattative molto di più che le diatribe sul ruolo della Corte di Giustizia europea e sulla perdita di sovranità statale.

Nonostante il voto contrario di alcuni suoi parlamentari – uno su tutti: Enoch Powell, Padre dell’euroscetticismo Tory, tanto quanto Heath dell’europeismo – la proposta di adesione passò con 112 voti favorevoli.

L’adesione alla CEE era comunque destinata a cambiare la politica inglese e il futuro del Regno Unito. Nel 1974 Harold Wilson tornò al potere e utilizzò lo strumento del referendum sulla permanenza del Paese nella Comunità a suo vantaggio per neutralizzare la fronda dell’euroscettico Jim Callaghan, e dell’euro-entusiasta Roy Jenkins. Al referendum – novità assoluta per la Gran Bretagna – che si tenne il 5 giugno 1975, Wilson fece campagna per restare nella CEE. Gli elettori britannici lo sostennero con una maggioranza di oltre 2 contro 1. I “sì” ottennero 17 milioni di voti, i “no” poco più di 8.

Proprio quell’anno i Tories elessero Margaret Thatcher come loro leader. Il suo rapporto con la Comunità plasmò gli 11 anni (1979-1990) in cui guidò il Paese. Fece campagna per il “sì” al referendum, ma si dimostrò inflessibile sui contributi che ogni anno il Regno Unito versava alla Comunità, ottenendo, nel 1984 a Fontainebleu, un importante sconto sulla quota a carico della Gran Bretagna. La retorica anticomunitaria della Lady di Ferro si scontrò presto con la realtà: fu lei a firmare l’Atto Unico Europeo del 1985 che impegnava gli stati membri della Comunità a una integrazione sempre maggiore, ampliava il voto a maggioranza qualificata andando oltre il Compromesso di Lussemburgo, e gettava le basi per l’Unione Monetaria. Quest’ultima fu teatro dello scontro finale con i suoi alleati storici all’interno dei Tories: Nigel Lawson e Geoffrey Howe. Come Cancelliere dello Scacchiere, Lawson era convinto che legare la sterlina al marco Tedesco nel Meccanismo di Cambio (ERM) era la strada maestra per la stabilità economica e monetaria della Gran Bretagna. Thatcher e il suo consigliere economico, Alan Walters, erano del parere opposto. Sola contro tutti nel suo Cabinet, Thatcher decise unilateralmente di sovvertire la decisione dei suoi ministri, scegliendo per tutti contro l’ingresso. Lawson allora iniziò a perseguire una politica monetaria segreta alle sue spalle che prevedeva l’ancoraggio della sterlina fissata a 3 marchi tedeschi. Alla fine fu costretto a dimettersi.

Ma la vera nemesi di Thatcher in Europa fu il Presidente della Commissione Jacques Delors, il vero e proprio ideologo dell’Unione Monetaria e dell’Europa federale. Delors strinse legami con le Trade Unions e il partito laburista ,cui promise un futuro di sicurezze sociali, lontano anni luce dal liberalismo thatcheriano. Thatcher non considerò mai Delors un suo pari, ma solamente un funzionario non eletto. Si detestavano cordialmente fino a quando sbottò contro di lui alla Camera dei Comuni: “Il Signor Delors – disse, alzandosi in aula con un tono per nulla conciliante – vorrebbe che il Parlamento europeo fosse il corpo democratico dell’Unione, che il Consiglio dei ministri fosse il Senato, e la Commissione fosse il suo governo: no, no, no!”.

Questa polemica seguì un intervento pronunciato al Collegio Europeo di Bruges il 21 settembre 1988, il famoso Bruges speech in cui affermava come “il Regno Unito non avesse fatto arretrare le frontiere del socialismo in questi anni, per vederlo rientrare dalla porta di servizio attraverso l’Europa”.

L’euroscetticismo – che sfociava quasi in xenofobia – fu un fattore determinante nella sua caduta. Il suo posto era bramato dal più europeista dei Tories, Michael Heseltine, ma andò al suo Cancelliere dello Scacchiere, John Major, unico apparentemente in grado di tenere insieme il partito.

Major dovette affrontare da subito il contrattacco degli euroscettici a Westminster per la ratifica di un nuovo Trattato destinato a cambiare le relazioni tra l’Europa e gli stati aderenti. In vigore dal 1° novembre 1993, il Trattato di Maastricht trasformava la vecchia CEE in Unione Europea, un cambiamento che indicava l’irreversibilità del percorso politico. Major riuscì a ottenere per il Regno Unito l’opt-out dalla moneta unica – che si sarebbe concretizzata di lì a poco – dalla Convenzione di Schengen e dal social chapter tanto caro a Delors. Quando tornò in patria fu accolto dalla stampa e dal suo partito come un eroe, ma la sua gloria fu effimera.

Con l’appoggio di Margaret Thatcher e dell’ex Presidente del partito, Norman Tebbit, i Maastricht Rebels all’interno dei Conservatori organizzarono imboscate a più riprese al governo. Uno dei capi dei rivoltosi, Bill Cash creò persino la European Foundation, una organizzazione che mirava a sfidare il governo sul Trattato a colpi di ricorsi legali. Cash inoltre, fu l’architetto di un episodio rimasto negli annali del Parlamento britannico: in una votazione decisiva per il governo fece trasportare in elicottero dalla Scozia il tory euroscettico ( e malato) Bill Walker, nascondendo lui e la sua barella nel quartier generale dei rebels a Great College Street per poi apparire al momento della votazione.

Il Trattato di Maastricht diventò legge, ma la precedente drammatica uscita della Gran Bretagna dal Sistema Monetario Europeo (SME) nel mercoledì nero del 16 settembre 1992, determinò la sconfitta di Major alle elezioni del 1997 e il ritorno del Labour. Anzi, del New Labour.
Tony Blair, erede del radical centre di Roy Jenkins, aveva collocato il partito su posizioni decisamente europeiste. Quanto meno a parole. Sull’ingresso nell’euro, Blair si scontrò con il suo Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown, fortemente euroscettico. Il compromesso a cui arrivarono fu trovato in una formula bizantina: la Gran Bretagna sarebbe entrata nella moneta unica “qualora le condizioni lo avrebbero permesso”. A scalfire la presunta fama di europeista di Blair, fu un evento esterno alla politica europea: l’invasione dell’Iraq del 2003, evento che lo vide in contrasto con il presidente gollista francese, Jacques Chirac, e con il Cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Quando dopo aver deposto il rivale storico, il 13 dicembre 2007 il neo-premier Gordon Brown, si presentò in ritardo alla firma del Trattato di Lisbona, la breve stagione dell’europeismo laburista poteva dichiararsi conclusa.

Il resto è storia recente, con la nascita e il successo dello United Kingdom Independent Party (UKIP) di Nigel Farage composto principalmente da fuggitivi del partito Conservatore che criticano la linea troppo morbida di Cameron sull’Europa e i migranti economici. Il premier ha trattato con Bruxelles nuove condizioni per la Gran Bretagna nell’Unione, e attende il risultato del referendum da lui stesso promesso. Ha fatto campagna per restare nell’Unione. Se perderà i Tories pro-Brexit lo sfiduceranno e cercheranno di sottrargli la guida del partito. Perché, in fondo, l’Europa è sempre stata il redde rationem delle lotte interne ai partiti che, dal Dopoguerra in poi, hanno fatto la storia del Regno Unito nell’Unione Europea.

(Terza a ultima puntata) (La prima puntata e la seconda puntata si possono qui e qui)


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