Più o meno un anno fa a Roma si teneva il primo Family Day, un evento di popolo che sanciva la nascita di un nuovo fenomeno politico e sociale, fatto di movimenti, associazioni e semplici fedeli cattolici accorsi in piazza San Giovanni per opporsi ala teoria gender. Sei mesi dopo, il 31 gennaio scorso, al Circo Massimo è andato in scena il bis con centinaia di migliaia di persone (secondo alcuni un milione o forse più, ma comunque tantissima gente) riunitesi di nuovo nella Capitale (sempre senza ordini impartiti dalla gerarchia ecclesiastica) per protestare contro il ddl Cirinnà sulle unioni gay. Ebbene, un anno dopo il primo Family Day, sei mesi dopo il secondo Family Day, quel progetto sembra essersi infranto tra divisioni, veleni e accuse reciproche. E’ l’effetto – secondo molti osservatori – di due idee completamente differenti sulla strategia da seguire in campo politico.
LA MADRE DI TUTTE LE DIVISIONI
Il problema nasce all’interno del Comitato Difendiamo i nostri figli promotore dei due Family Day. E’ venuto a galla pubblicamente dopo le due manifestazioni, ma covava al suo interno sin dall’inizio. Al di là di personalismi, differenze culturali e di formazione, la leadership di Massimo Gandolfini (portavoce del Comitato) è stata sin dall’inizio riconosciuta da tutti. D’altronde, il neurologo bresciano pur avendo una provenienza ben definita (è neocatecumenale, il gruppo azionista di maggioranza dei Family Day) si è sempre presentato come un punto di sintesi e di unità per tutto il popolo del Family Day, negando qualsiasi velleità di impegno politico diretto.
La madre di tutte le divisioni non è stata quindi la leadership di Gandolfini, nonostante altri esponenti carismatici come Mario Adinolfi potessero ambire a quel ruolo. La madre di tutte le divisioni, perlomeno quella che si è percepita dall’esterno, è stata un’altra: la strategia con cui dare seguito al Family Day, la decisione sul cosa fare dopo aver riempito per due volte le piazze, la modalità con cui perpetuare questa missione in difesa della famiglia naturale.
Due le posizioni emerse e sulle quali ancora oggi si continua a litigare con sempre più veemenza: da una parte la scelta del direttore de La Croce Mario Adinolfi e del presidente dei Giuristi per la Vita Gianfranco Amato di fondare un partito (il Popolo della Famiglia) per portare nell’agone politico le istanze del Family Day; dall’altra, la scelta di Gandolfini e dei suoi fedelissimi di Generazione Famiglia (su tutti, Filippo Savarese e Jacopo Coghe) di non trasformare il Comitato in un partito ma di implementarne l’azione di lobby per fare breccia nelle forze politiche più sensibili ai temi etici. Due impostazioni così divergenti non potevano che portare a distinte conseguenze: Adinolfi e Amato hanno infatti presentato le liste del Popolo della Famiglia un po’ in tutta Italia alle scorse amministrative, guadagnando percentuali oscillanti tra l’1 e il 3 e ottenendo un assessore a Cordenons in Friuli. Gandolfini & co si sono invece buttati a capofitto nella battaglia contro il referendum costituzionale, fondando un Comitato con l’obiettivo di mandare a casa il Governo Renzi responsabile dell’approvazione del ddl Cirinnà; oltre a questo, hanno avviato contatti con le forze politiche più sensibili a dare spazio alle loro istanze.
IL “DIAVOLO” DIVISORE DEI SOCIAL-NETWORK
In questa vicenda, condita da ritorsioni e vendette ben poco edificanti (con tanto di contenuti di riunioni private spiattellate sul web a mesi di distanza), un ruolo da padrone l’hanno giocato i social-network. Facebook in particolare. Non è un caso infatti se proprio ieri Adinolfi dopo essere stato bloccato più volte dagli stessi gestori per presunte violazioni alle regole della comunità, abbia annunciato il suo addio a questa piattaforma mediatica definita senza troppi giri di parole uno strumento diabolico. Ossia, uno strumento che divide. E infatti è stato proprio sulle bacheche dei vari esponenti del Family Day che si sono consumate le più accese discussioni (alcune sfociate in veri e propri insulti) tra chi ha sposato la causa del Popolo della Famiglia sotto forma di partito e chi è voluto restare fedele alla linea di Gandolfini. Stando a quanto emerso tra le centinaia di commenti dei sostenitori del Family Day, a dir poco sbigottiti da queste guerre fratricide combattute sotto gli occhi di tutti, si è capito che gli stessi vertici del Cammino Neocatecumenale (in particolare, il fondatore Kiko Arguello) avrebbero consigliato agli aderenti di non rispondere alle provocazioni via social e non dare adito ad ulteriori polemiche pubbliche. Una cosa è certa: se il tam-tam via Facebook aveva contribuito a riempire le piazze del Family Day (ma senza la mobilitazione dei neocatecumenali non si sarebbe mai arrivati a quei numeri), sono state le stesse discussioni, lettere e interventi sul social-network seguiti alle manifestazioni ad aver lacerato in maniera irreparabile questo movimento di popolo che così rischia l’irrilevanza.
E ORA CHE SI FA?
E’ una domanda che si fanno in tanti. Al momento, la risposta è duplice: chi ritiene che la linea da seguire sia quella del partito autonomo da tutte le altre forze politiche, si assume il rischio della scarsa incisività e della sola lotta di testimonianza ma prosegue forte della forza identitaria e della mancanza di compromessi; seguirà così Adinolfi e Amato nel loro progetto che guarda alle elezioni politiche. Chi invece ritiene che il Family Day non debba trasformarsi in un partito, che sia riduttivo racchiudere quelle battaglie in una singola forza politica convinto com’è che la strada migliore sia quella di crearsi spazi all’interno dei partiti già esistenti, seguirà Gandolfini e i suoi nell’attività del Comitato e di altri gruppi come Generazione Famiglia. Per seguire questa rotta, Gandolfini è disposto anche a “sporcarsi le mani” partecipando a convention di partiti e gruppi politici come quella del movimento Idea del senatore Gaetano Quagliariello, oppure alla Leopolda leghista di Matteo Salvini a Parma in programma oggi (anche se lì Gandolfini non andrà perché impegnato in una protesta al Miur a Roma contro la teoria gender, ma non avrebbe avuto problemi a parteciparvi). E rientra sempre in questa strategia, l’appoggio (più o meno ufficiale) ad alcuni candidati sindaci che avrebbero dato maggiori garanzie sui temi etici: da qui l’endorsement di Savarese per Giorgia Meloni a Roma (e non all’ex collega di direttivo nel Comitato Adinolfi) e quello di Gandolfini per Stefano Parisi al ballottaggio di Milano.
Il tempo dirà chi ha avuto ragione. Per il momento però dentro al Family Day qualcosa si è rotto per sempre.