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Che cosa combina la Cina nel cyberspazio

Per il Time, nel 2015 Lu Wei è stato uno dei cento personaggi più influenti al mondo. D’altronde non poteva essere altrimenti avendo sotto la sua responsabilità il controllo di internet in Cina. Mercoledì scorso lo zar della rete ha dovuto lasciare il proprio incarico a capo dell’Amministrazione per il cyberspazio al suo vice Xu Lin, una delle stelle nascenti del panorama politico cinese. “In un sistema caratterizzato dalla scarsa trasparenza Lu Wei è inusualmente schietto”, scriveva il magazine statunitense nelle motivazioni della sua scelta. Un pensiero abbastanza diffuso tra quanti in Cina si occupano di informazione e tecnologia.

È il caso di David Bandurski, ricercatore del China Media Project dell’Università di Hong Kong, che in un’analisi riconosce all’alto funzionario la capacità di rendere in modo comprensibile la visione autoritaria dei falchi cinesi rispetto al controllo di internet, che per Lu era come un’automobile, “non importa quanto vada veloce, se va in autostrada ha bisogno dei freni, altrimenti il risultato è scontato”. Per questo, è la conclusione per come la spiegò nel corso del Forum economico estivo di Davos due anni fa, “tutte le auto devono avere dei freni”.

L’ormai ex zar del cyberspazio cinese fa parte di quella nuova nidiata di figure interne al Partito che hanno abbandonato lo stile grigio del funzionario medio. E forse questa caratteristica è stata una delle ragioni della sua rimozione, sebbene ancora non sia chiaro se il futuro gli riserverà incarichi di maggior prestigio oppure la disgrazia di venir coinvolto in qualche inchiesta.

Voci non confermate dalla stampa di Hong Kong lo danno infatti invischiato in un filone del caso di corruzione che ha portato alla condanna di Ling Jihua, ex braccio destro del predecessore di Xi Jinping alla presidenza della Cina, Hu Jintao. Altri rumors lo danno invece in corsa per diventare il numero uno del dipartimento di Propaganda e in prospettiva addirittura per un posto nel comitato permanente del Partito comunista.

Data la segretezza che circonda le decisioni interne al Pcc e alla dirigenza cinese certezze si avranno soltanto al momento dell’ufficialità dell’una o dell’altra soluzione. Intanto ci si chiede come cambierà la politica di Pechino rispetto alle dinamiche di gestione del cyberspazio.

Lu è stato nei tre anni da censore uno dei fautori della wangluo zhuquan, che tradotto vuol dire sovranità digitale. Nell’ottica di Pechino, condivisa e propugnata ai massimi livelli dallo stesso presidente Xi Jinping, devono essere i governi a indirizzare lo sviluppo della rete, all’interno della quale continuano a valere i confini nazionali. Con oltre la metà dei 1,4 miliardi di cinesi collegati a internet, la gestione di quanto avviene online è considerata una questione di stabilità sociale. Gli interessi delle aziende e la necessità di scatenare il potenziale del business online (i successi di Tencent e soprattutto Alibaba sono due casi da manuale al riguardo) devono conciliarsi con il più alto interesse nazionale.

Le parole dello stesso Lu Wei servono a chiarire ulteriormente il concetto. Nel 2014 rivolto ai grandi colossi stranieri della rete volle ricordare che per loro non era possibile “trarre vantaggio dal mercato e dai soldi cinese, recando allo stesso tempo danno alla Cina”. Per i padroni della Silicon Valley, la Repubblica popolare non è però un mercato dal quale si può prescindere. Durante la visita negli Stati Uniti a dicembre del 2014, Lu fu accolto con tutti gli onori dai top manager delle aziende che subivano le decisioni dell’amministrazione statale che lui presiedeva. Meno calorosa sembrò all’epoca l’accoglienza che gli fu riservata a Washington.

Ma per Tim Cook di Apple, Jeff Bezos di Amazon e soprattutto Mark Zuckerberg, così come per tutti i loro colleghi,  la situazione era in parte diversa. Ecco quindi perché nella visita al campus di Facebook, lo stesso Zuckerberg si premurò di mettere in bella vista una copia di un libro di Xi Jinping. Come dire: “studiamo quello che avete da dirci”. D’altronde così come Youtube, Twitter, i siti di diversi quotidiani internazionali, i servizi di Google, anche Facebook è bloccato in Cina, salvo si utilizzi una vpn per aggirare la censura o il governo decida dei brevi periodi di libertà, cosa che ogni tanto capita, probabilmente per testare le reazioni.

I ripetuti incontri del fondatore con esponenti della Cina servono appunto a creare opportunità di accedere al mercato, rimuovendo la messa al bando. Affinché ciò accada nella Silicon Valley sono pronti se non ad accettare almeno a fare in parte propria la visione della rete di Pechino. Zuckerberg rappresenta in questo la punta di diamante, ma anche altri si stanno adattando. Apple ad esempio ha accettato di immagazzinare parte dei dati in server localizzati in Cina, cui quindi le autorità possono avere accesso. A sua volta LinkedIn aveva deciso di censurare alcuni contenuti nella Repubblica popolare e più di recente ha suscitato ironia e perplessità la scelta di Twitter di nominare direttrice generale per la Grande China, Kathy Chen, manager con un passato in Cisco, ma soprattutto nell’Esercito popolare di liberazione e in aziende legate alla sicurezza.

Con la nomina di Xu Lin al vertice dell’Amministrazione per il cyberspazio, Xi Jinping sembra aver deciso di delegare un suo protetto uno dei temi prioritari della sua presidenza, che negli ultimi quattro anni si è caratterizzata per un restringimento degli spazi di dissenso e paletti più stringenti per le società in materia di gestione di dati e contenuti.

Come sottolinea su Twitter Bill Bishop, curatore della newsletter Sinocism, sebbene la politica generale potrebbe non variare più di tanto, per i colossi internazionali le dimissioni di Lu potrebbero tuttavia voler dire tessere da capo relazioni personali. D’altronde si tratta sempre di una questione di guanxi, l’insieme di rapporti che regola comunque politica, economia e società.

(Articolo tratto dal sito China Files)


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