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Storie di migranti ammassati a Milano in attesa di andare in Germania

Milano, via Sammartini 120. La chimera. In un luglio afoso, l’hub nuovo di zecca a due passi dalla Stazione Centrale è il luogo al sicuro. Per chi? Per un numero imprecisato di giovani dalla pelle color ebano. Probabilmente la loro età è inferiore al numero indicato sui documenti. Per un bel po’ di mamme che scrutano il mondo con lo sguardo pieno di diffidenza. I loro occhi, neri come la pece, devono aver visto cose che non racconteranno mai a quel fagotto che stringono al seno. Per qualche decina di uomini che, raccolti pochi stracci e dignità, hanno deciso di sfidare il mare e la sorte alla ricerca di uno spiraglio di luce. Per una speranza legittima, perché umana.

QUASI TREMILA IN TUTTA LA CITTA’

Tante. Ce ne sono davvero tante di persone che sono arrivate nella città meneghina. L’assessore alle Politiche sociali della giunta Sala, Pierfrancesco Majorino, ne ha contate 2.700 circa, dislocate nelle varie strutture d’accoglienza che di notte diventano un tappeto unico blu, come il colore delle brandine. L’ex Dopolavoro Ferroviario di via Sammartini – gestito da Progetto Arca in collaborazione con Save the children, Avsi e Terres des Hommes – ospita oltre 300 migranti: donne e minorenni hanno la precedenza, ma a qualcuno è capitato di non trovare riparo qualche notte. Intorno allo snodo ferroviario principale, ci sono dodicenni che si atteggiano a sedicenni: si dividono il cibo come fossero in gita scolastica e si muovono in branco, perché quella è l’età in cui l’unione fa la forza. Soprattutto se la mamma e il papà sono dall’altra parte del Mediterraneo. Almeno si spera che ci siano ancora. Turchi, eritrei, somali per lo più. Rispetto allo scorso anno molti meno siriani. I ragazzini sono i più diffidenti. E i più spaventati. Nessuno parla italiano. Qualche rara eccezione spiccica parola in un inglese o francese decisamente claudicante.

LE TESTIMONIANZE

I miei fratelli hanno messo da parte i soldi per tutto l’inverno, mia sorella mi ha mandato qualcosa dalla Norvegia e così sono partita dall’Egitto”, ci ha raccontato una ragazza somala di neanche 20 anni, avvolta in una gonna celeste sbiadito e una maglietta blu sgualcita e con qualche segno di candeggina qua e là: “Ho viaggiato per giorni, non so quanti di preciso, su un barcone. Grande. Eravamo ammassati, tante volte ho pensato che non saremmo mai arrivati a destinazione, quando abbiamo visto la terra ho urlato dalla gioia”. La sua speranza è raggiungere un pezzo della famiglia lì, nel nord Europa. L’unico modo per far sì che possano fidarsi e concederci qualche battuta, è giurare e spergiurare che non saranno fotografati e identificati. Un’altra cosa: non si può fare accenno a quello che hanno lasciato a casa. E’ un pugno nello stomaco che non riescono a reggere. Pensano di mettere in pericolo chi è rimasto. E così sfuggono alle domande.

LE TENSIONI

Non mancano neppure i momenti di tensione, come quello di ieri mattina all’ex Cie di Via Corelli: i profughi si sono lamentati per la lentezza burocratica nell’iter di riconoscimento. Erano una quarantina. Infervorati. Esasperati. “L’episodio di oggi (ieri, ndr) come altri, sono tutti segnali che la situazione è grave. Ne parleremo al più presto con il Premier Matteo Renzi”, ha detto Majorino. Sì, anche Milano ha bisogno di aiuto. Concreto e consistente. Nella gestione di un’emergenza che non va sottovalutata. Che ci si aspettava e si sperava infatti in una più ampia collaborazione internazionale. Un altro giovane ci ha spiegato a mezza bocca: “Sono arrivato in Italia da qualche giorno. La mia famiglia è rimasta in Eritrea”. E’ alto alto, magrissimo. E quando gli abbiamo chiesto perché ha scelto l’Italia lui ci ha guardato con gli occhi sbarrati e sottovoce è riuscito solo a risponderci: “Allemagne”, Germania. Si è subito allontanato. Ha avuto paura.

IL SOGNO EUROPEO

E’ nel gruppo dei cosiddetti ‘transitanti’. Coloro che non vogliono essere ‘schedati’ nella speranza di poter varcare il confine. Di trovare Oltralpe la fortuna del loro destino. Ci credono in un futuro migliore. E lo vorrebbero in Europa. Quell’Eldorado – così pensano – che gli ha voltato le spalle da tempo. Da quando ha chiuso le frontiere. “E’ la terza volta che torno a Milano, ho provato ad andare in Germania e mi hanno beccato. Dopo due settimane ho provato con la Francia, ma l’epilogo è stato più o meno lo stesso”, ci dice un papà che sta tentando di raggiungere moglie e figli già emigrati in un altro paese europeo, mesi or sono. Per lui ora non c’è più posto lassù, come per tanti altri.


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