Gli italiani, nel sangue un Dna miscelato in tremila anni di incrocio continuo, non possono essere razzisti. Almeno non nel senso ideologico letterale: perché nessuno sa meglio di loro che non esiste il concetto di razza, né quello di identità nazionale come matrice culturale univoca. Ufficialmente divisa in gruppi etno-linguistici diversi (la lingua italiana non è lingua ufficiale e tutte le minoranze hanno da sempre pari dignità), l’Italia è fatta da 56 milioni di ex normanni, longobardi, slavi, arabi, greci, turchi, spagnoli, catalani, francesi a loro volta mischiati.
Francesco Sala, registra teatrale ma anche sottile sceneggiatore, ha lanciato su Facebook una provocazione piena di verità: gli italiani sono classisti, non razzisti. Sono per i ricchi, contro i poveri. Anche e soprattutto se sono essi stessi poveri. E’ però anche sbagliato parlare di classismo, perché da noi una unica, estesa classe media rappresenta gran parte del Paese.
E infatti se incroci la moglie di Obama che fa shopping nel centro di Milano non le grideresti mai “Scimmia”. Il fatto che uno che guadagna milioni come Balotelli, Gervinho o il trionfatore degli Europei, Renato Sanches sia di pelle nera non ti importa nulla, anzi compri a tuo figlio la loro maglietta, auspicando che la tua discendenza prenda il loro esempio. Quando vedi un arabo male in arnese ti sorgono dubbi e timori, ma non è mai per la pelle o la religione. Tanto che l’emiro saudita che attracca a Porto Rotondo ha il tuo profondo rispetto. Della affascinante modella nera sfogli le fotografie sui rotocalchi. Il cinese che sale sull’autobus è fastidioso, quello che compra il Milan è un gran figo, anche se sono due gocce d’acqua. Non si guarda affatto all’etnia – come succede diffusamente in altre parti d’Europa – ma direttamente al portafoglio. Siamo esterofili, e amiamo la ricchezza. Siamo i precursori dell’idea di risparmio, i più antichi collezionisti di moneta corrente, e non a caso abbiamo istituti di credito che vantano settecento anni di attività alle spalle.
E’ della povertà che abbiamo paura, dandole di volta in volta un nome diverso: clandestino, immigrato, marocchino, vucumprà, extracomunitario. Tutte definizioni grossolane che provano a metterci al riparo da un fantasma, evidentemente presente: il ricordo ancestrale, biologico che di quella povertà cosciente che abbiamo dentro di noi. Siamo stati risparmiatori ma anche poveri, fino al recente passato. E facciamo istintivamente di tutto per dimenticarlo, con un malcelato senso di “povertà vendicata” con cui tentiamo di cancellarne il ricordo.
Non a caso chi mostra la maggior paura della povertà, è chi si sente di nuovo a rischio. Chi la frequenta da più vicino. Chi ne ha il ricordo più fresco o ne rivede le sembianze in avvicinamento. E’ questa Italia censista, che classifica tutto e tutti sulla base del censo, la pancia autentica del Paese. Per la stessa leva, il censista che teme l’immigrato, presto o tardi arriverà all’odio per le élite e per il potere, più per invidia che per autentico contrasto.
Se non si interviene sul male, questo dalla pancia si estenderà al corpo intero e inghiottirà nella sua impaurita, finta rivalsa la politica e le istituzioni. E’ un processo già in corso.