Skip to main content

Come avanza la diplomazia scientifica degli Stati Uniti. Parla Vaughan Turekian

Vaughan Turekian è consigliere scientifico e tecnologico del Segretario di stato degli Stati Uniti John Kerry. Ha un passato orientato alla promozione della scienza quale strumento diplomatico, che lo ha visto ricoprire il ruolo di Chief international officer dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) e di direttore del Centro per la diplomazia scientifica dell’AAAS. In Italia ha partecipato all’evento organizzato dalla TWAS di Trieste e l’AAAS che si sta svolgendo dall’11 al 15 luglio nella città friulana. L’obiettivo è quello di parlare della diplomazia della scienza insieme ai Paesi in via di sviluppo per affrontare le sfide globali, dall’ambiente alla salute, allo sviluppo sostenibile.

In una conversazione con Formiche.net Vaughan Turekian ha affrontato alcune questioni legate al mondo della cooperazione scientifica e tecnologica. Tra le altre il forte legame scientifico tra gli Stati Uniti e Cuba, l’obiettivo delle collaborazioni interdisciplinari e l’importanza delle relazioni transatlantiche per affrontare le sfide allo sviluppo.

Mr. Turekian, cosa è cambiato oggi rispetto al periodo della Guerra fredda in termini di collaborazioni scientifiche e tecnologiche?

E’ interessante notare che anche durante la Guerra fredda gli scambi scientifici hanno continuato a essere alimentati e a produrre importanti risultati. In alcuni casi si è trattato dell’unica tipologia di scambio esistente in quel periodo. Negli anni 80, prima della fine della Guerra fredda, Gorbacev e Reagan si incontrarono e tra le varie cose che discussero, alcune riguardavano la cooperazione che ci sarebbe potuta essere in materia di energia, salute e spazio. A partire dagli anni 90, il focus è stato più orientato a discutere del ruolo della scienza e delle sue applicazioni per affrontare le sfide globali come il cambiamento climatico e i Sustainable development goal lanciati a settembre dello scorso anno. Sfide che non sono solo questione politica, ma richiedono una collaborazione tra Stati e scienziati provenienti da varie aree del globo.

A cosa si deve l’aumento della cooperazione scientifica?

Oggi rispetto al periodo della Guerra fredda la cooperazione scientifica è aumentata per due motivi: innanzitutto c’è stata una maggiore estensione della scienza a livello globale e, in secondo luogo, la comunicazione ha reso più semplice la condivisione della conoscenza e le relazioni scientifiche. Basta guardare le statistiche per osservare come la grande maggioranza dei paper pubblicati contengono contributi di varia provenienza nazionale.

Parlando di sfide globali, in quale campo crede che siano stati fatti i maggiori progressi?

Ci sono molti ambiti in cui sono stati fatti sostanziosi passi avanti. Ad esempio, oggi abbiamo una maggiore conoscenza di tutte le differenti componenti dell’atmosfera e degli oceani che influenzano il clima, del ruolo delle nuvole, delle radiazioni solari e dei gas a effetto serra. C’è ancora molto da fare perché il clima è un qualcosa di molto complesso, ma grazie alla cooperazione internazionale abbiamo una maggiore percezione del mondo che ci circonda. Si pensi ad esempio all’ozono e a quanto sia cambiata la conoscenza rispetto a quella che c’era negli anni 80 grazie alla collaborazione internazionale tra chimici. Stiamo facendo numerosi progressi anche per la comprensione del sistema molecolare, genetico e immunologico per capire lo sviluppo di malattie come il cancro; la comunità scientifica è oggi in grado di studiare queste cose partendo da scale molto più piccole. Siamo davvero in un periodo di grande fermento della conoscenza.

Quindi di base parliamo di ambiente e salute?

C’è molto di più. Pensi ad esempio a quanti progressi sono stati fatti in relazione alla trasmissione dei dati, la velocità di Internet è crescita perché ora conosciamo meglio le potenzialità della fibra ottica; anche in campo energetico sono stati fatti grandi progressi grazie a una maggiore conoscenza dei materiali – con cui ad esempio produciamo celle fotovoltaiche – e di processi naturali come la fotosintesi.

In quale ambito crede che si debba fare di più?

Uno dei più grandi trend nella comunità scientifica è legato al concetto di convergenza. Non bisogna pensare ai settori, ma ai problemi in termini generali e attorno a questi far convergere gli studi e gli interessi di esperti provenienti da varie discipline. Dobbiamo riflettere su come convogliare il lavoro di biologi, ingegneri, fisici, chimici e scienziati sociali per ragionare insieme attorno a cose complesse, come ad esempio il cervello umano, e così cercare di capire i processi celebrali che sono collegati alla depressione, a malattie come il Parkinson o mentali. La sfida è quella di costruire un approccio interdisciplinare per risolvere problemi, uno strumento capace di far progredire l’intero ecosistema scientifico.

In questo processo che ruolo hanno i Paesi in via di sviluppo? Come è possibile coinvolgerli?

Una delle sfide più rilevanti non è solo quella legata ai finanziamenti; ciò che spesso manca è la presenza di competenze per valutare proposte e ricerche scientifiche. Negli Stati Uniti abbiamo il PEER programme (Partnership for Enhancing Engagement in Research), amministrato dalla National Academy of Science, che ha l’obiettivo di aumentare il coinvolgimento di scienziati e ricercatori provenienti da questi Paesi. Si tratta di un programma di sovvenzioni che attraverso l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (USAID) raggiungono gli scienziati di Paesi in via di sviluppo che hanno forme di partenariato attive con controparti statunitensi. In questo modo si creano opportunità direttamente nei Paesi di riferimento e si rafforzano le relazioni.

Con quali Paesi gli Stati Uniti hanno maggiori relazioni?

Dipende dal campo che si prende in considerazione. Ad esempio a febbraio ho lanciato un network di consiglieri scientifici dei ministri degli Esteri. Fino a due mesi fa facevano parte solo Paesi sviluppati come Gran Bretagna, Giappone e Nuova Zelanda. A maggio ho avuto la notizia che il Senegal ha creato la posizione di consigliere scientifico per il ministro degli Esteri.

Un’interessante cooperazione scientifica degli Stati Uniti è quella con Cuba.

Anche prima del cambiamento ufficiale della politica, scienziati statunitensi e cubani erano attivamente coinvolti in questioni di mutuo interesse. Siamo molto vicini territorialmente e questo determina la presenza di sfide comuni legate a differenti ambienti e settori: atmosfera, oceani, salute. Il traffico di scienziati tra i due Paesi non si è mai arrestato. Durante la recente visita di Obama a Cuba è stato lanciato un gruppo di lavoro nel campo della neuroscienza e dell’immunoterapia per combattere il cancro. C’è una robusta attività di collaborazione anche in campo ambientale e per lo studio degli oceani.

E in relazione alla cooperazione con l’Europa?

La collaborazione scientifica tra Stati Uniti ed Europa è strumentale per far avanzare la nostra conoscenza e comprensione di questioni rilevanti come, ad esempio, la salute, l’ambiente e l’innovazione. Mettere in evidenza tali questioni è molto importante per rafforzare le relazioni transatlantiche.

×

Iscriviti alla newsletter