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Come vedono gli americani Trump e Clinton

“Sick and tired”, un comune modo di dire americano che non vuol dire—come sembrerebbe—“malato e stanco”, ma piuttosto “arcistufo”: “I’m sick and tired of hearing about Trump and Clinton!” L’espressione deve essere molto sulla bocca degli elettori Usa in questi tempi. Mancano più di cento giorni alle presidenziali americane del prossimo 8 novembre, ma già la maggioranza della popolazione si dichiara di avere le scatole più che piene delle troppe notizie sui due. In un recente sondaggio del rispettato Pew Research Institute, il 59 percento dei rispondenti si è dichiarato “worn out”—“completamente sfinito”— dall’attenzione mediatica dedicata alla campagna elettorale e ai candidati.

Lo sfinimento è universale, una sensazione condivisa da tutti i principali gruppi demografici considerati nella ricerca: dal 54 per cento degli anziani e il 67 per cento dei giovani millennials, dal 62 per cento delle donne e il 56 per cento degli uomini. Non c’entrano né razza né colore politico: il 62 per cento dei bianchi e il 54 per cento dei neri, come il 54 per cneto dei Repubblicani e il 55 per cento dei Democratici, non ne possono più. Non è che non gli importi esattamente. Dichiarano al 77 per cento che la contesa è “interessante”: un ottimo risultato rispetto alle ultime presidenziali di quattro anni fa, vinte da Obama, quando appena il 39 per cento ammetteva di avere interesse per l’esito. È solo che, per molti americani, i due contendenti risultano entrambi profondamente inadeguati. S’informano ossessivamente sulla competizione elettorale un po’ con lo stesso spirito di quelli che seguono la Formula Uno non tanto per vedere se vince “la Rossa”, ma per non perdersi l’eventuale incidente.

Non è una novità politica nemmeno negli Usa dover votare il meno peggio. Questa volta però tutti e due i candidati sono tanto impopolari da rendere la scelta insolitamente dolorosa. Ne è prova l’ammissione sofferta del noto scrittore conservatore americano P. J. O’Rourke. Descrive la Clinton — l’incarnazione di ciò che più detesta — come “la seconda cosa peggiore che possa succedere a questo Paese […] Ha torto su tutto, ma almeno sbaglia entro i parametri della normalità”.

Chi secondo lui non rientra tanto in quei parametri è il candidato più conservatore, Trump, una tipologia che in altre circostanze appoggerebbe in un istante. O’Rourke se lo immagina vincente alla Casa Bianca e, riferendosi alla “valigetta atomica” che accompagna i presidenti Usa ovunque vadano, descrive la scena: “Gli danno questo bottone, sapete. È in una borsetta e lui lo troverà di sicuro”. È l’incubo di un polemico che ama molto avere ragione, ma che a un certo punto è costretto a tracciare una linea. Non può sopportare in nessun modo l’idea di vedere “il bottone” nelle mani di Donald Trump.

La convention democratica che dovrà nominare Hillary Clinton inizierà il 25 luglio a Philadelphia. Clinton è un falco in politica estera, non è famosa per i suoi scrupoli, è un personaggio gelido che non ha né il fascino né l’abilità del marito — ma, a meno di un intervento divino, a novembre sarà suo il nome sulla scheda elettorale insieme a quello di “The Donald”.

Gli americani sono “sfiniti” dalle notizie politiche perché non riescono a resisterle. È come guardare quella macchina da Formula Uno mentre scivola lungo la pista e va a sbattere. Prenderà fuoco?


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