Cosa ti resta dentro delle Convention Presidenziali USA? A me, la massa fisica delle persone che si accalcano e le correnti emotive che attraversano quelle migliaia di persone, per un evento che tutto il mondo guarda. Certo, le Convention avvengono ogni quattro anni, come terminale di sei mesi di conflitti nelle elezioni primarie. Certo, non sempre le partite politiche si presentano tanto aperte, come è avvenuto in questo luglio 2016: Trump non ha veramente riunito tutto il Partito Repubblicano e la Clinton aveva (e in parte ha tuttora) lo strappo dei supporter di Sanders a sinistra.
Gli osservatori hanno notato che la Convention del GOP a Cleveland è stata soprattutto dedicata ai rimbalzi per influenzare i social network e che quella Democratica di Philadelphia è stata un capolavoro di gestione televisiva (sino al film sulla Clinton di Shonda Rhimes, il genio che ha inventato serie notevoli, come “Scandal”). Eppure, le correnti emotive hanno funzionato, in entrambi i casi, e sono destinate a condizionare i 100 giorni fino al voto presidenziale. Devi fidarti di me, oppure l’America va a picco. L’America è andata a picco, tanto vale fidarti di me.
Ho avuto modo di parlare più volte con Bill Clinton, di ascoltarlo in privato e in pubblico, dal ’94 in poi, e mai l’ho sentito didascalicamente mite e in self-restraint familiare, come nel suo discorso cui ho assistito nella Wells Fargo di Philadelphia. Una scelta inevitabile e azzeccata. Del resto, il punto cruciale della candidatura di Hillary resta la capacità, o meno, di liberarsi dell’idea che sia insensibile espressione dell’establishment. Una nemesi, se pensiamo alle origini. Non posso dimenticare quello che – da First Lady, seduta nella Sala delle Bandiere del Campidoglio, disse a me e mia moglie Barbara: “Ci combattono, e ci combatteranno, perché non facciamo parte dell’establishment. Per loro, sono un piccolo avvocato femminista, e lui l’ex-Governatore dell’Arkansas”. Da quel giugno del ’94, siamo in un’altra era.
Pochi anni dopo, avrei incontrato Donald Trump, nella sua stanza in cima alla Trump Tower, sulla 5a Strada. Da Sindaco, presentai a lui – come ad altri developer – una serie di opportunità di investimento a Roma. Avevamo iniziato a mettere in vendita una parte mal utilizzata del patrimonio comunale (ne avremmo ricavato, con gare pubbliche, alcune centinaia di miliardi). Trump si dichiarò interessato ad alcuni immobili, ma non fece nulla. Era piuttosto interessato a portare a Roma la sua kermesse di “Miss Universo”, di grande successo dalle Filippine all’America Latina. Ma a me pareva piuttosto dozzinale e lasciai cadere. Peraltro, anche per lui, oggi è un’altra era.
Già in un grande sondaggio del Pew Research Center del 2013, è emerso che per l’80 per cento degli americani il Paese non dovrebbe “pensare così tanto in termini internazionali”, quanto “concentrarsi di più sui problemi nazionali”. Solo per il 18 per cento dei cittadini Usa la promozione della democrazia dovrebbe essere una “top foreign policy priority”. Dunque, il bivio Clinton-Trump, che ci riguarda tanto da vicino, come europei, è piazzato al centro di questa solida tendenza. E’ stato interessante osservare, a Philadelphia, il peso della politica estera nell’interessante programma dell’Ndi (il National Democratic Institute, presieduto da Madeleine Albright) che accoglie impeccabilmente le delegazioni internazionali in occasione delle Convention – per me era la terza, dopo Boston (Kerry) e Denver (Obama). Dieci dibattiti sono stati a tema nazionale e uno sugli scenari internazionali. Con la politica estera, è più facile perdere che prendere voti.
La mattina di martedì 26 sono andato a pregare nella Chiesa cattolica di San Giovanni Evangelista, non lontano da City Hall. Dopo l’assassinio di Padre Jacques Hamel, una preghiera per i Cristiani uccisi e minacciati, per la libertà di tutti i credenti. E un pensiero politico-laico contro il ritorno dell’odio e il radicamento di nuovi rancori. Anche per la Chiesa di Francesco questa prospettiva ha bisogno di una paziente costruzione, sorretta da un pensiero impegnativo: è più difficile, oggi, per ogni parroco italiano spiegare ai fedeli, la domenica, quanto sia importante accogliere – nei quartieri di periferia, come in piccoli centri del nostro Paese – alcune decine o centinaia di rifugiati di religione musulmana.
Qual è stato il sound-bite, il passaggio nei discorsi che mi ha colpito di più? Certamente, Michelle Obama che ricorda come la Casa Bianca sia stata costruita col lavoro degli schiavi; e che sul suo prato abbiano potuto giocare, per otto anni, le sue belle figlie di colore nero. Si può comprendere come – per riempire il discorso di Melania Trump – la sua autrice non abbia trovato di meglio che copiare alcune frasi del discorso di Michelle Obama del 2008 a Denver. La coautrice di Michelle (secondo alcuni, Sarah Hurwitz) ha vinto alla grande, per due volte.
Sempre a Philadelphia, nella sede dell’American Institute of Architects, si è insediato negli stessi giorni della Convention l’Advisory Board di ex-Sindaci che hanno accettato l’invito di Airbnb: con me, i colleghi Usa di Philadelphia e Houston, e quello australiano di Adelaide, tre notevoli innovatori. Airbnb è la grande piattaforma che io considero il più riuscito tra i nuovi strumenti della sharing economy. Nata da un’esperienza casuale (il fondatore Brian Chesky e un suo amico, in periodo di sovraffollamento degli alberghi di San Francisco, misero nel 2007 un annuncio online per accogliere su tre materassi gonfiabili chi cercasse un alloggio), Airbnb è arrivata ad ospitare 100 milioni di viaggiatori. Il punto di sintesi tra modernizzazione della domanda e offerta da parte di persone e famiglie che aprono le proprie case (e che ricavano benefici economici), snella regolazione, efficienza e trasparenza, è di grande interesse.
E’ un tema di cui mi sono occupato – con una felice intuizione che si tradusse in un totale insuccesso – nel 1999, alla vigilia del Giubileo. Fu un’intuizione originale, perché “anticipò” Airbnb di 8 anni (temendo effetti di “cartello” nella gestione degli alberghi, aprimmo la possibilità a ogni famiglia romana di ospitare una famiglia di visitatori offrendo una stanza pulita e prima colazione). Ma fallì, perché a fine anni ’90 non esisteva l’uso sociale della rete. Alla fine, poi, si rivelò un meccanismo non necessario, perché le strutture ricettive furono abbastanza diversificate e flessibili da accogliere la bellezza di 70 milioni di presenze nel corso del Duemila. Da allora, anche qui siamo in un’altra era. E, di fronte ai turisti-robot del trasporto di massa, noi dobbiamo favorire un turismo attento, sostenibile, che sa scegliere. E’ interesse della vecchia Europa e della nostra Italia, che ha potenzialità di accoglienza tuttora inespresse, nelle grandi città d’arte, e nei luoghi profondi e diffusi del nostro territorio.