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Cosa studiano Guardian, Times e Telegraph per la pubblicità (aggirando Google)

I quotidiani britannici sotterrano l’ascia di guerra per far fronte a un nemico comune, forse il più grande che abbiano mai dovuto fronteggiare: Google e il suo strapotere sul mercato pubblicitario. Per ora si tratta di sondare il terreno e capire fin dove ci si può spingere, ma gli editori di Guardian, Sun, Times, Mirror, Express, Star, Telegraph e Mail stanno lavorando insieme a uno “studio di fattibilità”, chiamato Project Juno e ben dotato di risorse (e anche di suoi uffici), per capire come recuperare spazi pubblicitari sulle loro testate. Non a caso il progetto è presieduto da un ex Ceo della pubblicità, Steve Booth.

PUBBLICITA’ IN FLESSIONE SUI GIORNALI

Come riporta City A.M., Project Juno nasce in un anno in cui i grandi editori britannici hanno riportato un crollo delle entrate pubblicitarie, perché la crescita online non riesce a bilanciare il declino sui canali tradizionali. Secondo l’Advertising Association/Warc Expenditure Report, gli investimenti pubblicitari sulle testate nazionali segnano un -10,1% nel 2016 rispetto al 2015 e per il 2017 si prevede un ulteriore -10,8%. Male anche le testate regionali (-9,7% nel 2016) e le riviste (-5,9%). Sul versante opposto, i colossi online, con Google e Facebook in testa, crescono a ritmi robusti grazie all’incremento della pubblicità. Lo stesso report prevede che gli investimenti pubblicitari online in Uk cresceranno quest’anno del 12,3% e del 10,1% nel 2017.

Il Guardian Media Group è tra gli editori che hanno sofferto di più dell’erosione di entrate pubblicitarie creata dalla (onni)presenza di Google e Facebook: le entrate digitali del gruppo sono scese del 2,3% a 81,9 milioni di steriline nei 12 mesi tra aprile 2015 e aprile 2016 e fonti interne all’azienda dicono in via ufficiosa che è colpa dei giganti di Internet. Le entrate totali del Guardian Media Group sono diminuite di 8 milioni di sterline in un anno a 209,5 milioni. La perdita pre-tasse è di 173 milioni.

“Il problema è che la pubblicità online display non sceglie più i siti dei giornali e degli editori tradizionali e va invece verso quelli dei social media. Il market share di Facebook e Google sta crescendo enormemente”, dicono gli esperti di Enders Analysis.

EDITORI AL CONTRATTACCO

La risposta degli editori è semplice: smettere di farsi una concorrenza spietata e unirsi per arginare la crescita dei colossi di Internet. “Noi pensiamo di avere un pubblico di lettori di alto valore, di qualità, altamente interessato ai contenuti che proponiamo, per molti aspetti superiore al pubblico di altri canali media”, dice Booth. “Se ci mettiamo insieme, parliamo con una voce sola e ci rendiamo capaci di creare un punto di riferimento unico (one-stop shop) per la pubblicità, allora le fortune commerciali di tutti i grandi nomi del giornalismo ne guadagneranno, e così anche i grandi inserzionisti”.

Project Juno non è il primo tentativo dei giornali di far fronte comune contro i grandi del web. L’anno scorso Guardian, Financial Times, Reuters, Cnn International e The Economist hanno lanciato una rete di programmatic advertising, Pangaea, con obiettivi simili a quelli del progetto Juno. La rete è in espansione ma i risultati sarebbero ancora poco soddisfacenti in quanto a entrate generate per le testate partner.

ANCHE NEGLI USA ALLEANZA ANTI-GOOGLE

Lo scorso aprile, un gruppo di giornali americani ha fatto fronte comune in modo simile: Detroit Free Press, Houston Chronicle, Miami Herald e Los Angeles Times (che fanno capo agli editori Gannett, Hearst, McClatchy e Tribune Publishing) hanno dato vita a un’alleanza chiamata Nucleus Marketing Solutions con l’obiettivo di vendere agli inserzionisti le loro audience combinate.

I quattro gruppi editoriali sostengono di raggiungere complessivamente più del 70% dei consumatori nei 30 maggiori mercati per la pubblicità negli Usa e di avere 168 milioni di utenti online – numeri che danno loro la forza per attrarre contratti pubblicitari di peso.

Capeggiata dall’ex Chief revenue officer di Mashable Seth Rogin (che ha anche lavorato per 13 anni al New York Times) e con sede a New York, Nucleus Marketing Solutions dovrà convincere gli inserzionisti, desiderosi di rivolgersi al pubblico americano su scala nazionale e che tendono a scartare i brand dei media locali, che anche Detroit Free Press, Houston Chronicle, Miami Herald ed LA Times hanno molto da offrire. Sul rischio-flop Rogin assicura: “Siamo molto diversi da Pangaea: qui non cerchiamo solo di fare rete, ma innovazione digitale”.

QUESTIONE DI INNOVAZIONE 

Di partnership del genere tra testate, sia nazionali che locali, se ne sono formate diverse da quando i grandi del web sono intervenuti a sottrarre larghe fette di guadagni pubblicitari, ma spesso si scontrano con una serie di difficoltà, da quelle tecniche (incompatibilità di banche dati e sistemi software) a quelle di gestione (contrasti interni, lentezza nel prendere le decisioni). La chiave resta quella dell’innovazione digitale segnalata da Rogin: lo dimostra l’esperienza degli editori americani Tribune, Hearst, Gannett e New York Times che nel 2008 si sono uniti nel progetto QuadrantONE per poi chiuderlo nel 2013 a causa delle difficoltà di tenere il passo con i rapidi cambiamenti nella tecnologia per l’advertising.

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