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Perché la flemma su pil e conti pubblici è mortale

C’è una lettera scritta poco più di 80 anni fa che sembrerebbe indirizzata oggi al presidente del Consiglio italiano alle prese, come si vede dai dati resi noti dall’Istat, con una situazione economica che non da segni di miglioramento. Eccone alcuni dei passi essenziali: “Caro Signor Presidente, lei si è proposto un doppio obiettivo: la ripresa e le riforme – la ripresa dalla crisi economica e le le riforme economiche e sociali attese e dovute da tempo. Per la prima sono necessari velocità e risultati immediati. Anche le riforme possono essere urgenti, ma la fretta rischia di essere dannosa e la saggezza di un progetto di lungo periodo può essere più necessaria di una realizzazione immediata […] In realtà, guardando a questo ultimo periodo, non sono sicuro che l’ordine di priorità fra misure per la ripresa e riforme sia stato pienamente rispettato o che non si sia in qualche caso scambiate le seconde per le prime […] Quanto alla tecnica per promuovere la ripresa, un aumento dell’attività produttiva non può determinarsi se non per effetto di uno di questi elementi: i cittadini devono essere indotti a spendere di più e a risparmiare meno; le imprese debbono essere convinte, per effetto di una maggiore fiducia o di bassi tassi di interesse, a investire di più o infine le autorità pubbliche debbono intervenire per creare nuovo reddito attraverso la spesa di fondi ricevuti in prestito o finanziati con nuova moneta. In periodi economici sfavorevoli è solo dal terzo fattore che possiamo aspettarci un impulso significativo“.

Questi sono alcuni passi di una lettera aperta che John Maynard Keynes, il grande economista inglese, indirizzò al Presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, nel 1933 a pochi mesi dalla sua prima elezione e nella quale lo metteva in guardia dal pensare che “le riforme” di per sé bastino a rimettere in cammino l’economia e che servono invece misure concrete di sostegno della domanda, se si vuole davvero uscire dalla crisi.

Il Governo Renzi avrebbe bisogno, a due anni e mezzo dalla sua costituzione, di una riflessione molto approfondita sugli esiti economici delle politiche finora fatte. E’ certo, infatti, che il governo non ha avuto successo nel proposito centrale enunciato all’atto della sua formazione di rimettere in moto l’economia italiana. Dopo due anni stagnanti, anche la previsione di un aumento del reddito nazionale nel 2016 dell’ 1,2 per cento, che pure era assai modesta, dovrà essere fortemente rivista al ribasso alla luce del fatto che nel secondo trimestre di quest’anno il reddito nazionale non è cresciuto affatto. Più 0,3 per cento nel primo trimestre, 0 nel secondo. Date queste premesse, a fine anno la crescita sarà inferiore all’1 per cento e cioè l’Italia rimarrà ancora una volta nella condizione di crisi in cui si dibatte da anni. La disoccupazione è vicina al 12 per cento; la disoccupazione giovanile è altissima; il Mezzogiorno è fermo.

Vi è anche il rischio che un andamento del reddito nazionale così fiacco si ripercuota sulla finanza pubblica, peggiorando rispetto alle previsioni, l’incidenza del deficit e del debito pubblico sul reddito, rendendo quindi ancora più difficile convincere l’Europa ad accettare una politica di maggiore deficit pubblico da parte dell’Italia.

Il governo non può trovare esimenti a questi andamenti dell’economia italiana nella situazione internazionale, perché – lo certificano Istat e Eurostat – pur non crescendo molto, l’area dell’euro registra un + 0,3 per cento nel trimestre (+0,4 per cento la Germania) coerente con una crescita nettamente superiore all’1 per cento nell’anno. Dunque il problema è italiano e rimane poco tempo prima che finisca la legislatura con un bilancio sostanzialmente negativo.

Resta sostanzialmente soltanto la legge finanziaria di quest’anno che verrà presentata fra poche settimane E resta la considerazione di Keynes che non ci si può illudere che investimenti e consumi ripartano da soli. Per uscire dalla crisi sarebbe stato necessario negli anni appena trascorsi ed è tuttora indispensabile il sostegno che può provenire soltanto da un bilancio pubblico in deficit.

Questo è il problema che ha accompagnato il governo Renzi dal primo giorno e di cui è stato ripetutamente scritto su questo giornale. Tra l’altro, oggi, anche molti di coloro che inizialmente pensavano che si dovesse evitare di ricorrere alla finanza pubblica per far ripartire l’economia e ritenevano che potesse essere sufficiente lo stimolo monetario della Banca Centrale Europea, riconoscono che la situazione richiederebbe un’azione molto più determinata sul fronte della finanza pubblica.

Come è stato scritto più e più volte, c’è una contraddizione fra il rispetto delle regole di finanza pubblica fissate dall’Europa, che richiedono di dare priorità a un progressivo ritorno al pareggio del bilancio e dunque hanno carattere prevalentemente deflattivo e le esigenze di rilancio dell’economia che impongono di attivare un deficit più alto.

Finora il Governo italiano ha cercato di conciliare il rispetto delle regole europee con il proposito di sostenere la ripresa. Lo ha fatto chiedendo – e ottenendo – percorsi di riduzione del deficit più lenti di quelli originariamente chiesti dall’Europa. Ma questa politica, perseguita ormai da due anni e mezzo, è fallita. I margini di flessibilità chiesti all’Europa e da essa concessi, non sono stati sufficienti a fare ripartire la macchina economica e l’illusione che le cosiddette riforme potessero aiutare si è rivelata tale.

C’è solo un’ultima occasione per aprire una nuova strada: è il bilancio per il 2017 che verrà presentato fra poche settimane. Conterrà i segni di una svolta? Sceglierà di rischiare la riprovazione europea pur di fare una politica efficace? Oppure cercherà per la terza volta di presentare a parole una soluzione che soddisfi noi e il nostro problema di combattere la disoccupazione e di fare ripartire l’attività produttiva e l’Europa che insiste sul rigore e sul pareggio dei conti?

Poche settimane e vedremo.



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