Ogni anno, a gennaio, poco prima dell’annuale incontro tra le montagne svizzere, il World Economic Forum diffonde un documento di analisi sui rischi globali denominato, per l’appunto, “Global Risks”.
Il rapporto è frutto di un’attività di studio sviluppata nel corso dell’anno precedente ed è costruito, in gran parte, sui risultati del Global Risks Perception Survey, un sondaggio che viene svolto, in genere a settembre, su un campione di oltre 1.000 esperti di 100 Paesi (il 55% da Europa e Nord America), provenienti dal mondo accademico (17%) ed istituzionale (15%), dalla società civile e, soprattutto, dal settore aziendale e finanziario (42%). Il Forum di Davos, difatti, costituisce uno degli appuntamenti internazionali più importanti ed esclusivi per i leader globali del mondo economico.
Agli esperti viene chiesto di stimare, su una scala da 1 a 5, “probabilità” e “impatto” di 50 rischi globali appartenenti a cinque differenti categorie: geopolitica, economia, società, tecnologia, ambiente; su un orizzonte temporale di 10 anni. In altri termini: quale probabilità esiste che un dato rischio si manifesti nei successivi dieci anni e, ove si manifesti, quanto grande elevato l’impatto.
Ecco, quindi, i “top five” secondo il World Economic Forum.
In quanto a “probabilità”, in cima alla classifica gli esperti internazionali collocano l’aumento del gap tra ricchi e poveri seguito dalla mancata riduzione dei debiti sovrani, dall’aumento delle emissioni di gas serra, dalle crisi di approvvigionamento idrico e dalla incapacità nella gestione delle problematiche connesse con l’invecchiamento della popolazione.
In termini di “impatto”, invece, in cima alla classifica viene collocato il collasso di un’istituzione finanziaria o di una moneta di rilevanza sistemica per l’economia globale seguito da crisi di approvvigionamento idrico, dalla mancata riduzione dei debiti sovrani, dalle crisi alimentari e dalla diffusione di armamenti di distruzione di massa.
In una sostanziale conferma dei pareri raccolti nella precedente edizione 2012 del rapporto, i rischi economici, sociali ed ambientali si confermano prioritari su scala globale e, quantomeno nella percezione degli esperti intervistati, prevalgono tendenzialmente su quelli tecnologici e geopolitici. Questi ultimi quasi scomparsi dai “top five” del documento appena presentato.
Il rapporto però non si limita ad una fotografia statica dei rischi globali ma indaga sulle dinamiche sottostanti, individuando e soppesando le interconnessioni tra gli stessi.
Per ciascuna delle cinque categorie, infatti, è stato chiesto agli esperti di individuare il rischio sistemico più importante, il “centro di gravità” di quella determinata categoria cui i decisori dovrebbero riservare particolare attenzione.
Tra i rischi economici il centro di gravità è considerato il collasso di un’istituzione finanziaria o di una moneta (l’euro?); l’incapacità nell’implementare misure efficaci a protezione della popolazione di fronte ai cambiamenti climatici (dati, quindi, per certi) costituisce, invece, il rischio più importante tra quelli ambientali; le crisi nell’approvvigionamento di acqua potabile ed il crollo di reti o infrastrutture critiche sono centri di gravità, rispettivamente, della categoria sociale e tecnologica.
Infine, la categoria geopolitica. Secondo gli esperti internazionali, il rischio più rilevante è costituito dal fallimento della governance globale, un vuoto di potere che impedisca, o comunque limiti gravemente, nei prossimi dieci anni la cooperazione per la risoluzione di problemi globali. Un problema realmente sistemico, questo, tanto da risultare in cima all’elenco dei rischi più interconnessi, il vero centro di gravità tra tutti i cinquanta rischi globali dei prossimi anni.
Il rapporto “Global Risks 2013” è, quindi, un risk assessment globale i cui risultati sono estremamente utili sia per il settore privato che per quello governativo. D’altronde, obiettivo dichiarato di tale attività di analisi sviluppata dal World Economic Forum è proprio quello di innalzare il livello di consapevolezza della leadership, stimolandone la riflessione e spingendo il decisore a predisporre adeguate capacità di resilienza.
E’ questa, infine, una novità dell’edizione 2013 del rapporto. A 14.000 top manager, infatti, il World Economic Forum ha chiesto di esprimere un parere sulle capacità di monitoraggio, prevenzione e gestione dei rischi globali da parte dei propri governi nazionali. Gli Stati Uniti risultano al 29° posto, subito prima della Cina (30°), della Francia (31°) e dell’Australia (32°). La Germania è al 17°, il Regno Unito al 20°. L’Italia si colloca al 39° posto, prima di Israele (44°), della Spagna (53°), del Giappone (67°) e della Russia (73°).
Al primo posto risulta Singapore. Una sorpresa? Non tanto. La città-stato asiatica, infatti, nel corso degli anni Duemila ha speso ingenti risorse per potenziare le proprie capacità di previsione strategica di lungo termine sviluppando, tra le altre cose, un sistema nazionale di horizon-scanning – in stretta sinergia tra governo, università, ricerca ed aziende private – che adesso viene considerato un modello a livello internazionale.
Perché prevenire è meglio che curare.
Claudio Neri
Direttore del Dipartimento di Ricerca dell’Istituto di Studi Strategici “Niccolò Machiavelli”