Non è vero che l’Unione europea non avrà mai un ministro delle finanze unico, capace di stabilire chi tassa chi e dove, con l’obiettivo di creare un’unica regola fiscale europea. No, questo ministro esiste già, anzi è una ministra, si chiama Margrethe Vestager (nella foto) figlia di un pastore protestante danese ed esponente della sinistra radicale, la stessa commissaria che ha picchiato duro sulle banche italiane impedendo di utilizzare il fondo interbancario per la risoluzione delle crisi, giudicato aiuto di stato anche se si tratta di uno strumento privato finanziato dalle banche stesse, garantito è vero dalla Banca d’Italia, ma in nessun modo sostenuto con denari dei contribuenti.
Ebbene, la decisione che condanna la Apple a pagare arretrati fiscali per 13 miliardi di euro, penalizza non solo e non tanto l’azienda creata da Steve Jobs, ma uno stato sovrano dell’Unione europea. “State diventando un’autorità sovranazionale in tema di tasse”, sostengono gli Stati Uniti. E hanno ragione. La mossa della commissione, infatti, rivela una volontà unificante, in barba ai trattati che lasciano (finora) ai singoli paesi il potere di imporre le tasse.
Sgombriamo dunque il campo dalle polemiche sul potere delle multinazionali, sulla necessità di tagliare loro le unghie, di ridurre i loro maxiprofitti e spalmarli magari sui governi. E andiamo al vero nocciolo della questione: Bruxelles se la prende con la Apple, ma in realtà ce l’ha con l’Irlanda, è un attacco al cuore del modello economico che ha favorito la crescita della “tigre celtica” e ha consentito che non finisse come la Grecia, nonostante i colpi durissimi della crisi.Lo sottolinea il Wall Street Journal che spiega così quello che per il Sole 24 Ore è un paradosso: il fatto cioè che il governo di Dublino abbia intenzione di rifiutare il diktat della commissione facendo ricorso alla corte di giustizia.
Tredici miliardi di euro non sono noccioline, equivalgono a un anno di spesa sanitaria, anche se dovrebbero essere impiegati per ridurre il debito pubblico non per aumentare le spese. Tuttavia, per gli irlandesi contano più i posti di lavoro. Apple impiega 5.500 persone, ma è evidente che è in gioco l’intera politica condotta in questi vent’anni: fare della repubblica irlandese il punto d’approdo delle multinazionali (soprattuto americane) in Europa attraverso un trattamento fiscale favorevole. Anzi, chiamiamola con il suo nome, una svalutazione fiscale che ha consentito di compensare l’adesione all’euro e l’impossibilità di ricorrere a svalutazioni valutarie.
Si può dire che così l’Irlanda ha fatto concorrenza sleale nei confronti degli altri Paesi. Concorrenza sì, ma perché sleale? La Germania ha una tassazione sulle imprese nettamente inferiore a quella italiana o francese. La Danimarca non è lontana dalle aliquote irlandesi. Finché la politica fiscale resta nelle mani dei governi nazionali è normale, anzi è giusto, che essa venga usata per introdurre flessibilità tra paesi e tra aree economiche, elasticità in un mercato interno che non può essere irrigidito da una norma unica. Ed è tanto più utile proprio in quanto l’euro impedisce di usare la politica monetaria su basi locali o nazionali.
Ciò rimette in discussione il cammino verso una maggiore unità europea? I federalisti che volessero usare questo argomento dovrebbero guardare all’unica formazione statuale compiutamente federale e ben funzionante: gli Stati Uniti. In Texas le tasse statali sono pressoché inesistenti, a New York sono altissime. Ciò non mette in discussione l’unità anche perché tutti vengono sottoposti alle stesse imposte federali. Gli stati del sud attraggono imprese anche straniere grazie a incentivi fiscali e salariali, facendo competizione a quelli del nord. Ciò rende il mercato interno mobile, flessibile, più pronto a reagire alle crisi. Una pre-condizione, naturalmente, è che sia mobile e flessibile anche il mercato del lavoro. Nella Ue non è così, e non lo sarà per lungo tempo (forse mai?), e anche per questo la concorrenza fiscale crea maggiori squilibri. Ma ciò è colpa della mancanza di un mercato interno dal lato del lavoro.
Il caso Apple, o meglio il caso Irlanda, può diventare un’altra occasione per chiarirci le idee su quale unione vogliamo in Europa. La vera contraddizione, insomma, è che una decisione che nella mente della Vestager e degli eurocrati di Bruxelles si ispira a un principio comunitario, finisce per diventare fonte di maggiore divisione. Come accade tutte le volte che la regola prevale sulla politica.