Verso la fine degli anni ottanta, una storiella (tra le meno maligne) che girava sulla bocca dei Moscoviti raccontava che Gorbaciov a un certo punto si era accorto che nella grande casa Russia pioveva attraverso il tetto. Decise allora che le tegole dovessero essere sostituite. Malauguratamente, tolte quelle, ci si accorse che pure le travi che le sostenevano erano marce. A malincuore, ordinò allora la sostituzione anche di quelle ma, appena levatele, ci si rese conto che perfino i piloni portanti erano così malandati da richiedere interventi molto più radicali. Spaventato da quella situazione e dietro consiglio dei suoi collaboratori pensò quindi che fosse meglio ricoprire il tutto in attesa di decidere sul da farsi. Purtroppo, l’aver scoperchiato la casa, anche per poco, peggiorò talmente le cose fino a farla crollare tutta. Naturalmente, ciò a cui si alludeva erano quei tentativi di parziali riforme passate sotto il nome di “Perestroika”.
Soprattutto nei regimi autoritari, la saggezza e i sentimenti popolari si manifestano spesso attraverso storielle come questa e il loro racconto quasi sempre descrive la realtà meglio dei più attenti cronisti. Solo gli storici, tra qualche anno, potranno fare giustizia di ciò che veramente accadde negli anni e nei mesi precedenti alla caduta dell’impero sovietico ma, nel frattempo, io posso riferire di ciò che vidi personalmente.
Ho avuto, per motivi di lavoro, la fortuna di viaggiare in Unione Sovietica dai tempi di Breznev a quelli di Gorbaciov e poi nella Russia di Eltsin e di Putin. Potei anche incontrare, in più occasioni, sia l’ultimo Presidente sovietico che il primo presidente russo e mi capitò frequentemente di parlare con persone di varia estrazione sociale e professione: dai taxisti ai politici, dai giornalisti agli intellettuali di vario genere, dai militari ai commessi di negozio. L’idea che ho potuto farmi di come siano andati i fatti è, alla fine, un po’ diversa da quella raccontataci dai numerosi articoli di giornale e dalle analisi che in occasione del 25” anniversario sono apparsi con frequenza su varie testate.
Bisogna sapere che, abituati alle procedure sovietiche, quasi tutti i corrispondenti stranieri a Mosca (solo uno sparuto numero di loro parlava russo) componeva i propri pezzi dopo essersi limitati a presenziare le conferenze stampa del Cremlino e, nel migliore dei casi, a conversare con gli interpreti o il personale che il regime assegnava loro. Si spiega così, probabilmente, la lettura monocorde, scarsamente informata e totalmente elogiativa dell’azione intrapresa in quegli anni da Michail Sergeevic Gorbaciov. Se non ricordo male, l’unica eccezion a questo unanimismo fu l’Economist, ma per il semplice lettore era difficile andare oltre il muro di peana eretto dalla gran parte della stampa occidentale.
In realtà, a differenza di ciò che riferivano la maggior parte delle testate, né Gorbaciov né la moglie Raissa godevano di popolarità presso il cittadino medio sovietico. Fu in occidente che nacque il loro mito e, in Italia, il PCI incoraggiò questa lettura perché pensava, sbagliando, di trovarvi conferma al proprio “eurocomunismo”. I sovietici, al contrario, non lo amavano e non certo perché avessero nostalgia dei tempi brezneviani o fossero contrari a una profonda riforma del sistema. Piuttosto, chiunque percepiva che la perestroika gorbacioviana era solo un tentativo di superficiale maquillage e non di radicali riforme. Gorbaciov restava un fedele membro del Partito Comunista Sovietico che, accortosi del disastro in cui stava versando il suo Paese, credeva almeno di salvare il sistema. Questa consapevolezza popolare era talmente diffusa che già allora mi sembrava incomprensibile il perché nessun giornalista europeo ne parlasse in questi termini. Una volta mi capitò di incontrare all’aeroporto di Mosca Demetrio Volcic, russofono e conoscitore del Paese da tanti anni, e gli chiesi perché perfino lui non raccontasse le cose come stavano. Imbarazzato, ammise sotto voce che doveva raccontare la situazione come i suoi superiori e l’opinione pubblica se l’aspettavano.
Anche la glasnost fu raccontata come una favola. Si scrisse ovunque che la democrazia stava finalmente facendosi strada in Unione Sovietica e, oggettivamente, la gente aveva cominciato a parlare con maggiore libertà. Ciò che aveva spinto Gorbaciov a sciogliere parzialmente le briglie era però una necessità di pubbliche relazioni verso l’Occidente e i suoi organi di propaganda seppero enfatizzare la cosa in modo eccellente. L’URSS non poteva più reggere, da un lato, al ritmo di spesa imposto dalla “guerra stellare” di Reagan e, dall’altro, alla crescente ed inarrestabile domanda di benessere materiale che veniva dalla popolazione sempre più edotta del tenore di vita occidentale grazie ai serial televisivi stranieri (Dallas tra gli altri) e al moltiplicarsi delle comunicazioni internazionali. Già prima di lui Andropov, suo pigmalione, aveva capito che per salvare il regime occorreva offrire un maggior numero di beni di consumo. Sfortunatamente, il suo “regno” durò troppo poco per portare a un qualche risultato. Seguì la parentesi nera, brevissima, di Cernenko e, quando Gorbaciov arrivò al potere (anche su spinta di Alexander Jakovlev, il famoso “architetto della perestroika”), cercò di riprendere la strada del suo pre-predecessore. Purtroppo, non c’erano fondi sufficiente ed il bilancio statale andava verso il fallimento. L’unica strada che gli rimaneva era di disinnescare la spirale di spesa per armamenti e, per far ciò, doveva conquistarsi la benevolenza dell’opinione pubblica occidentale per poter dedicare maggiori risorse al bilancio dell’economia interna.
La glasnost non fu, quindi, frutto di una “conversione democratica” ma, piuttosto, una mossa tattica per fronteggiare gli eventi.
Gorbaciov era sicuramente un uomo intelligente, ma la storia ci insegna che non basta una certa intelligenza per pilotarla. Occorre essere all’altezza e in sintonia coi tempi e con le circostanze. Michail Sergeevic non lo fu, e la situazione gli sfuggì di mano.
La fantomatica “trasparenza”, a cui da decenni il russo non era più abituato, si trasformò in un impedimento per le stesse riforme fino a che il Presidente del Soviet Supremo capì di non essere più in grado di controllare gli eventi.
Fu così che nacque l’idea di un colpo di stato affidato al KGB. Non contro Gorbaciov però, ma con il suo consenso o addirittura la sua complicità. Il viaggio in Crimea fu concordato e, almeno all’inizio, lui non subì alcun limite. Ciò è tantovero che si sa di una sua telefonata con un suo amico, capo di un grosso Kombinat, avvenuta il secondo giorno del putsch. L’inadeguatezza verso il compito che la storia gli aveva assegnato mi fu confermata, pochi anni dopo, dallo stesso Alexander Jakovlev che, durante la nostra conversazione non risparmiò al suo ex amico critiche e accuse.
Qualcuno ha sostenuto che Boris Nikolaevic Eltsin, ambiziosissimo e spregiudicato, abbia approfittato di quegli eventi per prendere il suo posto e cita a testimonianza il gesto prepotente con cui, fallito il putsch, tolse a Gorbaciov il microfono e lo allontanò dal palco. Chi ricorda questi fatti non sa, o non ammette, che la convinzione di complicità con i putschisti fu un sentire comune tra i russi di allora, dimentica che l’inimicizia politica tra Eltsin e lui, dovuta proprio alla critica di scarso coraggio riformatore, era di molti mesi antecedente a quei giorni. Boris Nikolaevic, con il quale ebbi il piacere di diversi incontri privati, aveva già capito che il sistema comunista era fallito e rimproverava al segretario del PCUS di non volere girare definitivamente pagina.
Eltsin era un vero patriota russo, desideroso di far uscire il proprio Paese dal disastro economico e sociale in cui si trovava e, quando salì sul carro armato arringando la folla e i soldati, era già molto popolare tra la gente per questi motivi. Appena scoppiato il tentato golpe si rifugiò all’interno della Casa Bianca, sede della Presidenza Russa, ben sapendo di correre un forte rischio per la sua stessa vita. Era un uomo coraggioso e se la sua presidenza finì male in mezzo a scandali e ruberie la responsabilità non fu soltanto sua ma anche di quell’Occidente che, invasato dalla propaganda gorbacioviana, lo descriveva come un usurpatore, facendo di tutto per affossarlo. Che l’atteggiamento dei Governi occidentali, in primis l’americano, fosse un errore lo dimostreranno i fatti successivi e la stessa guerra fredda che alcuni nostri nostalgici continuano a praticare.
A conferma di quanto affermo in merito alla sua personalità, basta ricordare che l’ex presidente americano Richard Nixon, criticabile per tante cose ma non certo privo di intelligenza politica, durante l’anno precedente agli eventi del ’91 andò a Mosca rimanendovi circa un mese e, al suo ritorno in patria, si mise a svolgere una forte azione lobbistica a favore di Eltsin e contro Gorbaciov.
Altri dettagli su questi eventi e su ciò che successe dopo, se ai lettori interesserà, saranno l’oggetto di un prossimo articolo.