L’ex presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, ieri è stata destituita dal Senato che si è espresso con 61 voti a favore contro 20. Per rimuoverla definitivamente era necessaria una maggioranza dei due terzi, ossia almeno 54 voti. Adesso il potere viene assunto in maniera definitiva dal suo ex vice divenuto principale rivale, Michel Temer, 75 anni, il cui mandato terminerà alla fine del 2018. Il suo compito sarà difficile. L’economia brasiliana è in profonda crisi e nemmeno le Olimpiadi sembra siano riuscite a risollevarla. Proprio ieri è stato diffuso il dato sul pil del secondo trimestre, che si è contratto si contrae del 3,8% tendenziale e dello 0,6% congiunturale. Si è trattato del sesto arretramento trimestrale consecutivo.
La Rousseff è accusata di aver manipolato illegalmente i conti pubblici e di aver distolto fondi dalle banche statali per finanziare, senza passare per il Parlamento, i programmi di spesa sociale in modo da assicurarsi la rielezione a fine mandato. Questi versamenti “anticipati” e non coperti da legge di bilancio sono in realtà prassi comune nel Paese sudamericano, dove vengono definiti “pedaladas” e non ne furono esenti né Lula né il suo predecessore socialdemocratico Fernando Henrique Cardoso. Nel loro caso, però, si trattò di poche centinaia di milioni di real, che potevano anche passare come errore contabile. Alla fine del 2014, invece, le pedaladas attribuibili al primo governo Rousseff avevano toccato i 52,2 miliardi di real, circa 15 miliardi di euro al cambio attuale.
Temer non si troverà un’eredità facile e non solo perché il suo nome è stato fatto più volte dai pentiti coinvolti nell’inchiesta Petrobras, il colosso petrolifero statale, sebbene nessun procedimento sia stato ancora aperto nei suoi confronti (a differenza di quanto avvenuto al presidente della Camera, Eduardo Cunha, che fu tra i principali promotori dell’impeachment contro la Rousseff e fu poi costretto a dimettersi a luglio con l’accusa di corruzione). Il Brasile di oggi non è più quello del primo mandato di Lula, che tirò fuori dalla povertà 29 milioni di concittadini. Negli ultimi due anni il Brasile è infatti diventato il grande malato dell’economia mondiale, con un calo del Pil pari al 7% nel biennio 2015-2016 (il peggiore da 80 anni), una disoccupazione record (l’11,6% a luglio), un’inflazione che lo scorso inverno ha superato il 10%, toccando i massimi da 13 anni.
La crisi è frutto di diversi fattori. In primo luogo ha pesato il crollo dei prezzi delle materie prime che ha colpito Petrobras, primo investitore pubblico del Paese, e aggravato le conseguenze del calo della domanda di soia e zucchero dalla Cina. Il tutto si è accompagnato a un forte aumento della spesa pubblica, che ha fatto salire il debito pubblico lordo verso il 70% del pil, livello che sembrerebbe gestibile rispetto a quello registrato in Italia. Ma a differenza di Roma, Brasilia sconta tassi di interesse superiori il 14% per contrastare l’inflazione, ovvero costi di servizio del debito decisamente elevati. Tassi così alti, inoltre, hanno costretto le banche statali a offrire ai clienti prestiti a un costo calmierato, che ha eroso ulteriormente i fondi disponibili per gli investimenti pubblici, particolarmente urgenti in campo di infrastrutture. Al quadro si è aggiunto il tonfo del real avvenuto tra il secondo semestre del 2015 e il primo semestre di quest’anno (tendenza invertitasi negli ultimi mesi), che ha aumentato i costi delle importazioni e, di conseguenza l’inflazione, ponendo un freno a una crescita che era stata basata soprattutto sui consumi privati, sempre più compressi dalla flessione dei salari reali.
(Pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)