Nel 1980, e quindi già un anno prima del tentato golpe, la popolarità di Gorbaciov in Unione Sovietica era già ai minimi termini. Era soltanto in occidente che il suo mito sopravviveva grazie ai media e ai politici che apprezzavano il suo fare occidentaleggiante. Anche il ruolo di Prima Dama del Paese svolto da Raissa, la moglie, da noi piaceva tanto quanto, al contrario, ciò la rendeva impopolare in Russia. Pochi stranieri capirono che uno dei motivi della antipatia popolare verso di lui era dovuto anche a come parlava il russo. Aveva uno strano accento del sud, con una cadenza simile a quella di De Mita nel parlare l’italiano. Alle orecchie di un russofono qualunque, il suo eloquio suonava ridicolo e gli toglieva una parte di credibilità.
A questo suo piccolo handicap, a un certo punto, si aggiunse la campagna che lanciò contro l’alcolismo. Su pressioni di un influente membro del soviet supremo, tale Ligaciov, impose la distruzione di tutte le bottiglie da mezzo litro, normalmente usate come contenitore per la vodka e l’estirpazione dei vitigni a vino nella repubblica Moldava, in Armenia e in Georgia. Non saprei dire se questi ultimi ordini furono eseguiti, ma l’alcool sparì da tutti i magazzini dell’URSS, salvo che nei negozi autorizzati a vendere in valuta straniera e quindi riservati ai forestieri e ai pochi membri della nomenklatura. Il risultato fu che, ben presto, in tutti i negozi sparì anche lo zucchero perché, chiunque poteva, cercò di fabbricarsi l’alcool in casa. Come aggravante a suo carico, correva voce che Gorbaciov fosse astemio.
Eltsin già dal 1985 aveva cominciato a criticare la timidezza delle riforme e, per protesta contro la mancanza di coraggio politico di Michail Sergeevic, nel 1987 si dimise addirittura da Politburo. Fu il primo ed unico caso nella storia sovietica, ma fu la dimostrazione della frattura esistente tra i riformatori radicali e i propugnatori di un semplice maquillage. Alle prime elezioni popolari per la Presidenza della Repubblica Federativa Russa all’interno dell’Unione Sovietica, fu eletto con un plebiscito.
L’URSS stava già, allora, incamminandosi verso la dissoluzione e le Repubbliche Federate si ritagliavano sempre più spazi autonomi dal potere centrale.
Tra le barzellette che all’epoca giravano a Mosca ce n’era una che rendeva l’atmosfera corrente:
Un giorno arrivò al Politburo una lettera del presidente dell’Estonia che, adducendo gravi provocazioni da parte della vicina Finlandia, chiedeva l’autorizzazione a dichiarare la guerra contro quest’ultima. Senza nemmeno aspettare la risposta da Mosca, il governo di Tallin dichiarò autonomamente la guerra e, appena la Finlandia mobilitò il proprio esercito, una delegazione governativa estone si recò a Helsinki per comunicare la propria resa ponendo la sola condizione di essere occupata dalle truppe finlandesi e chiedendo la conseguente annessione
Questa storiella era un sintomo delle spinte centrifughe sempre più forti cominciate con il crollo del Comecon e del Patto di Varsavia nel 1989, quando il Ministro degli Esteri ungherese, consultato Gorbaciov, autorizzò il passaggio in Austria di tanti cittadini tedeschi in fuga dalla Germania dell’Est. Fu quell’esodo per via traversa (i movimenti fuori cortina dei comuni cittadini dei Paesi del Patto di Varsavia erano praticamente proibiti) ad aprire poi la strada per il crollo del muro di Berlino, oramai diventato inutile.
All’inizio del 1991 qualunque osservatore dei fatti sovietici, se scevro da pregiudizi ed in buona fede, aveva capito che il sistema non avrebbe retto più per lungo tempo e che il futuro del Paese apparteneva a uomini come Eltsin. Da lì l’azione lobbistica, purtroppo infruttuosa, di Nixon. Proprio in quel periodo con l’intento di aprirsi contatti politici, magari informali, in Europa, Eltsin mi chiese, durante un nostro incontro, se fossi in grado di organizzargli un incontro tra il suo Ministro dell’Industria, quello della Repubblica Russa, e i Ministri dell’industri italiano e francese. Rientrato in Italia, presi subito contatto con l’allora nostro Ministro on. Battaglia e gli proposi la cosa. Grazie alle buone introduzioni a Parigi di un mio collaboratore di allora, il dott. Emmanuel Gout, facemmo la stessa cosa in Francia. I francesi risposero quasi subito dicendo che, seppur in modo informale, il loro Ministro sarebbe stato disponibile ad un incontro e non si poteva nemmeno escludere che, in quella occasione, passasse di lì “per caso” il Ministro degli Esteri.
Invece in Italia, dopo qualche giorno, Battaglia mi disse che, sentito il Ministro degli Esteri Giulio Andreotti, l’Italia rifiutava quell’ipotesi perché gli unici interlocutori accettati dovevano essere rappresentanti ufficiali di uno Stato sovrano e non di una Repubblica Federata. Alla fine, la missione del ministro russo non avvenne né a Roma né a Parigi per motivi a me sconosciuti, ma il fatto in sé dimostra la diversa lungimiranza ed il diverso spessore a volte esistente tra le classi politiche dei vari Paesi.
La Presidenza Eltsin, perfino dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fu boicottata dai media e da quasi tutti i Governi occidentali e, anche quando erano salvate le forme, nessuno volle credere alla possibilità di creare un rapporto costruttivo con la nuova realtà moscovita. In occasione della visita di Eltsin al Parlamento Europeo, i nostri geniali rappresentanti arrivarono addirittura a subissarlo di fischi.
In Russia le cose, invece, andavano diversamente. L’occidente, finalmente diventato una possibilità, se non altro teorica, per ogni cittadino russo era diventato un venerato miraggio e la popolarità di qualunque cosa fosse americana era enorme. Purtroppo, negli Stati Uniti, nostalgici della guerra fredda e malintenzionati pensarono di poter approfittare, economicamente e politicamente, della debolezza dell’ex nemico e la dissoluzione, non solo dell’Unione Sovietica come già avvenuto, ma della stessa Russia divenne l’obiettivo di qualcuno.
Ogni trasformazione radicale porta con sé gravi problemi e la Russia si trovò di fronte contemporaneamente allo sfaldamento dell’ex impero e a una feroce crisi economica che svuotò tutti i negozi e portò alla chiusura di molti di quelli che erano stati i grandi Kombinat. Senza adeguati aiuti occidentali, Eltsin, economicamente inadeguato, si affidò a coloro che furono in seguito chiamati “oligarchi”. Costoro, grazie alla complicità di politici incapaci e/o corrotti divennero ben presto i veri padroni del Paese. Una delle stesse figlie di Eltsin, sposata con un uomo senza scrupoli, partecipò al saccheggio. L’avvicendarsi di vari primi ministri non servì a nulla e i Berezovski e compagni di turno facevano il bello e cattivo tempo saccheggiando il Paese. La popolarità di Eltsin crollò rovinosamente e lui stesso, a un certo punto, si rese conto di non poter più reggere la situazione. Fu allora che i suoi più stretti consiglieri (e qualche oligarca convinto di poterlo poi controllare a proprio piacimento) suggerirono la nomina di Vladimir Vladimirovic Putin.
Per loro disgrazia, anche grazie alle precedenti esperienze nel KGB (da cui si era formalmente dimesso già tempo addietro), Putin dimostrò di non avere alcuna intenzione di diventare la marionetta di qualcuno e, appena gli fu possibile, dichiarò guerra, eliminandone uno alla volta, a tutti gli oligarchi economici che volevano dominare sulla politica.
Il resto è storia recente.
Anche in occidente oggi Putin ha ammiratori (pochi) e denigratori (tanti) ma ognuno è costretto ad ammettere che ha saputo rimettere la Russia in carreggiata, ridare l’orgoglio di appartenenza al suo popolo, approfittare (quando così era) degli alti prezzi del petrolio per fare ripartire la macchina economica e, infine, ridare un ruolo internazionale a un Paese che è pur sempre il più esteso del mondo ed il più ricco di materie prime. Chi ha un po’ di memoria e vuole confrontare la Russia di oggi con quella degli ultimi anni della presidenza Eltsin potrà ricordare cosa significava per la nostra tranquillità il tempo in cui armi russe venivano vendute in regime di anarchia, i siti nucleari erano in rovina e nessuno sapeva come o chi li stesse controllando per impedire che materiale nucleare pericoloso finisse in mani criminali.