Il G20 di Hangzhou ha prodotto un neologismo: “Civilizzare il capitalismo”. E non viene dalla sempre fertile fantasia cinese per le formule, ma dal primo ministro australiano Malcolm Turnbull, uno che prima di mettersi in politica faceva il banchiere da Goldman Sachs e, di conseguenza, il capitalismo, quello selvaggio non ancora civilizzato (almeno secondo il senso comune), lo ha conosciuto da vicino. Siccome le parole sono conseguenza delle cose e non viceversa, possiamo dire senza essere smentiti che da Hangzhou non è venuto fuori nulla di concreto.
Il meeting ha fornito l’ennesima occasione a Xi Jinping per mostrare la potenza cinese e il suo ruolo nel mondo. Uno show-off più a fini interni, diffuso in grande stile dalla televisione e dai mezzi di comunicazione. La Cina continua a crescere a un ritmo che è elevato per il mondo occidentale (di poco inferiore al 7% annuo), ma è pur sempre il più basso da un quarto di secolo, quindi non può più essere la locomotiva della economia mondiale: ha altre priorità, deve consolidare e (si spera) riformare il suo modello di sviluppo che mostra serie crepe; sperando che non prenda una deriva imperiale (molti inquietanti segnali li sta già mostrando).
La questione economica concreta, nascosta dal diluvio di parole, riguarda la siderurgia. E’ stato deciso di creare un osservatorio mondiale in sede Ocse, ma il vero problema sta proprio in Cina. L’industria ha sfornato una quantità enorme di acciaio, ha prodotto una sovraproduzione sia sul mercato interno sia su quello mondiale, mettendo in crisi i grandi gruppi multinazionali, dall’India all’America all’Europa. Pechino ha promesso una svolta e lo stesso presidente Xi Jinping ha confermato l’impegno a tagliare la produzione, portando esempi di altoforni già spenti. Molti sherpa occidentali, però, sono convinti che i cinesi stiano giocando di rimessa, puntando su piccoli aggiustamenti, attenti a non turbare lo status quo. Le grandi riforme strutturali promesse in quella che era stata proclamata “l’era dell’armonia” sono solo parole, anch’esse, non cose.
Il G20 è stato tutto un profluvio di parole. La più usata è popolo, in ossequio allo spirito dei tempi. “Noi siamo un ponte che unisce i popoli”, ha detto Xi. E tutti si sono impegnati a migliorare le condizioni economiche e sociali del loro popolo. Come? Parlando di crescita, ma non decidendo nulla di concreto. La promessa più falsa è proprio quella scritta nel comunicato finale, cioè “coordinare le politiche macroeconomiche”. In realtà, tutto oggi va in senso contrario. Lo stesso summit grondava isolazionismo. Sul piano politico sono apparse evidenti le divisioni tra Stati Uniti e Russia (l’incontro tra Obama e Putin è stato gelido) mentre la Corea del Nord si faceva sentire con un altro lancio di missili (i più maliziosi hanno pensato che tutto sommato facesse piacere alla stessa Cina che così poteva mostrare a tutti la sua importanza nel tenere a bada quella scheggia impazzita). Sul piano economico, nonostante i proclami contro i rischi di un neoprotezionismo, è chiaro che tutti si stanno avviando su questa strada (il fallimento dei negoziati sul trattato tra Usa e Ue è solo l’ultima dimostrazione). La stessa Cina prosperata grazie al libero scambio, oggi pensa che sia più facile gestire la propria transizione aprendo qualche paracadute in più.
Da dove potrà venire, dunque, il rilancio della crescita? Allo stato attuale non si vedono locomotive all’orizzonte. Certo, c’è sempre l’invito ai paesi con un surplus eccessivo nella bilancia con l’estero ad aumentare la domanda interna. Ma ormai nel mirino c’è solo la Germania che ha un attivo pari addirittura all’8% del pil, perché il sovrappiù della Cina è sceso a tre punti ed è destinato a ridimensionarsi ancora. Berlino non ha nessuna intenzione di cambiare, tanto meno in questo anno elettorale, ma anche se lo facesse potrebbe dare un contributo positivo all’area euro, non trascinare l’economia mondiale.
Dunque, siamo a un impasse. Il rischio di una stagnazione di lungo periodo prevista da Larry Summers prende corpo non solo e non tanto per ragioni strutturali (demografiche, sociologiche, tecnologiche), ma anche (e forse soprattutto) per motivi politici, perché oggi la “rabbia dei popoli”, o come comunque si voglia chiamare la nuova ondata di scontento che attraversa i vari paesi, spinge le classi dirigenti a guardare al proprio interno, nell’illusione di poter dare una risposta nazionale, se non proprio nazionalistica, ai problemi generati da questa nuova fase della storia chiamata globalizzazione con una definizione in larga parte riduttiva. Le parole, di nuovo, leggere come l’aria, pesanti come pietre.