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Chi pagherà le misure annunciate da Matteo Renzi con più spesa pubblica e meno tasse?

Forse Matteo Renzi si sarà fatto ispirare da Wolfgang Schäuble il quale, checché se ne dica, è un ministro delle Finanze come tutti gli altri: quando si avvicinano le elezioni (e ancor più se sono drammaticamente incerte) allarga il cordone della borsa. Intendiamoci, fa bene a ridurre le tasse e aumentare le spese, espandere la domanda interna è quello che tutti chiedono alla Germania (lo ha fatto anche l’ultimo G20). Inoltre, il governo tedesco sa dove prendere le risorse: il prodotto lordo cresce, il bilancio pubblico è in ordine e il commercio estero ha generato un attivo di ben 307,7 miliardi di euro di dollari (dati di luglio) pari a quasi tutto l’attivo della zona euro e superiore non solo in rapporto al pil (8 punti rispetto a 2,7), ma in cifra assoluta a quello cinese che ammonta a 256 miliardi. Dunque, c’è un bel po’ di burro da spalmare sugli elettori.

Il capo del governo italiano, invece, ha promesso di nuovo meno imposte e più spesa pubblica con un prodotto lordo fermo, un bilancio pubblico in deficit, un debito in ascesa e una bilancia corrente in attivo (2 per cento del pil), ma esportazioni in sofferenza dopo aver sudato per compensare (sia pure solo in parte) il crollo della industria che produce per la domanda interna e la stagnazione dei servizi.

Insomma, la Germania può pagare le promesse elettorali, l’Italia no. La prossima legge di stabilità parte già con un handicap di 15 miliardi per evitare che scattino le famigerate clausole di salvaguardia (aumenti dell’Iva e imposte indirette). Poi bisogna coprire l’aumento delle pensioni minime, il bonus per i lavoratori autonomi, gli incentivi fiscali per le imprese (Ires), i benefici per le aziende in crisi, il sostegno dell’occupazione (tutte promesse renziane) e quant’altro. Tutte spese da coprire all’interno dei vincoli europei, perché fuori si potranno mettere solo le erogazioni straordinarie, cioè gli interventi per il terremoto. Il governo già prevede un aumento del disavanzo rispetto agli impegni precedenti, quindi i margini si riducono davvero a una manciata di decimali di punto, a meno di non sfondare il tetto del 3 per cento.

C’è poi il piano Casa Italia, di respiro addirittura decennale, un intervento massiccio, secondo alcune valutazioni iniziali si tratta di spese annue che oscillano tra l’1,5 e il 2% del pil. Come finanziarle? Aumentando ancora il debito pubblico? Impossibile a meno di non andare davvero in rotta di collisione con la Ue e rischiare una Italexit. Un gruppo di economisti della Luiss (Carlo Bastasin, Lorenzo Bini Smaghi, Marcello Messori, Stefano Micossi e Gianni Toniolo) in un paper appena pubblicato propongono due strade:

1) La prima è l’assicurazione obbligatoria. Si tratta “di trasferire l’onere diretto della (mancata) prevenzione ai privati mediante l’istituzione di un’assicurazione obbligatoria contro i danni dei terremoti – scrivono gli economisti – Le compagnie di assicurazione, chiamate a offrire polizze di copertura verso i danni da terremoto, avrebbero forti incentivi a effettuare un’attenta discriminazione dei potenziali clienti in base al loro insediamento territoriale e alle loro precedenti o contestuali azioni di prevenzione verso i relativi rischi. Si arriverebbe, così, a raggruppare gli assicurandi in diverse classi di rischio e a differenziare il costo della polizza assicurativa a seconda di diverse tipologie. Lo Stato dovrebbe offrire ai proprietari appartenenti a classi di rischio più elevate una qualche forma di esenzione fiscale che colmi il divario fra costo di prevenzione e conseguente abbassamento nel costo della polizza”.

2) La seconda attinge ai fondi strutturali europei, “che vengono impiegati con così poca efficacia dal nostro paese. Con un bilancio di 454 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, i fondi ESI sono lo strumento principale della politica degli investimenti dell’Unione europea. Entro la fine del 2016 la Commissione dovrà presentare al Parlamento europeo il riesame di mid-term relativo al funzionamento del Quadro Finanziario Pluriennale, tenendo conto della situazione economica in quel momento nonché delle proiezioni macroeconomiche più aggiornate”. Nel novembre 2014, ricordano gli economisti, la Commissione europea ha varato il piano Juncker che avrebbe dovuto catalizzare un considerevole aumento di investimenti, ma i cui risultati effettivi sono stati finora assai più modesti. “In tale contesto, il governo italiano sarebbe in condizioni di presentare un progetto dettagliato per orientare i fondi strutturali o le risorse mobilitabili dal piano Juncker verso le finalità descritte nel piano Casa Italia. Si tratterebbe di condividere con istituzioni, autorità di controllo comunitarie e imprese transnazionali un piano di prevenzione di lungo periodo”.

La prima strada sembra la più lineare e anche quella in teoria più facile da praticare, in fondo la scelta è solo nelle mani del governo e del parlamento italiano ed è del tutto razionale. Ma proprio queste sue caratteristiche, nazionale e razionale, la rendono di fatto quanto mai aleatoria. Come si fa a convincere i grillini, la sinistra Pd, la destra sociale, un senso comune che chiede lo stato dalla culla alla tomba (vacanze e seconde case comprese) senza curarsi che poi quello stato sono i contribuenti che pagano tutto per tutti?

L’altra strada deve superare due ostacoli: il primo, quello europeo, forse può essere il minore: in fondo non si tratta di chiedere più risorse, ma una loro diversa distribuzione e un utilizzo senza dubbio migliore; il secondo scoglio, il peggiore, è la palese inefficienza degli investimenti pubblici, lenti e incerti nei risultati. Non è un pregiudizio, è la realtà dei fatti. Dunque, bisognerà trovare una via di mezzo, mettendo insieme risorse pubbliche e private, così come una gestione mista sia della ricostruzione post-terremoto sia del più ambizioso piano casa. In ogni caso, è bene che si cominci a parlare subito dell’argomento più spinoso e antipatico: chi paga e come mantenere la pioggia di promesse.


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