L’uomo Ratzinger ha brindato alla sua coscienza prima che alla sua funzione papale, per dirla con la celebre battuta di John Henry Newman. E quel brindisi gli ha permesso di “tornare a casa”. A fornire l’ennesima precisazione sulla rinuncia di Benedetto XVI è stato, lunedì, a Monaco di Baviera, Georg Gaenswein, alla presentazione ufficiale del libro intervista del papa emerito con Peter Seewald. Nelle cui pagine si coglie una conferma pressoché puntuale delle tanto discusse dichiarazioni del segretario del papa emerito, rese in maggio alla Gregoriana e in giugno a Ewtn Germany (qui la traduzione in inglese).
Interventi arditi, nei quali si discorre di “papato di eccezione”, di “un ministero allargato”, “con un membro attivo e un membro contemplativo”. Parole che hanno eccitato le interpretazioni più svariate. Il dibattito è apertissimo. Ma sono parole che Ratzinger in gran parte conferma, precisandole e riconducendo tutto ad una dimensione più mistica, lasciando agli esperti (tra gli altri il cardinale Walter Brandmüller e il vescovo Giuseppe Sciacca) la necessaria riflessione giuridica per eventuali, futuri, papi emeriti.
L’ULTIMA ERMENEUTICA DI PADRE GEORG
L’arcivescovo a Monaco ha richiamato un episodio della vita di Ratzinger quando, a 17 anni, arruolato nella contraerea, decide di disertare, anzi, semplicemente, di “tornare a casa”. Rischiando di essere arrestato e ucciso. “In quell’episodio del giovane Ratzinger c’è anche una chiave per spiegare il suo passaggio spettacolare a fine vita, le sue dimissioni”, interpreta Gaenswein. “Ma lui era così certo, da giovane come nell’estate 2012, quando maturò il passaggio della rinuncia resa pubblica l’11 febbraio successivo, che per la seconda volta ha deciso di tornare a casa”. Così Ratzinger risponde alla sua coscienza, consapevole dell’unico compito che sentiva di dover adempiere da pontefice. Come dice a Seewald: “Fede e ragione sono i valori in cui ho riconosciuto la mia missione e per le quali la durata del pontificato non era importante”.
IL PAPA DEL CONCILIO
Il titolo del nuovo libro intervista, “Ultime conversazioni”, più che a un definitivo testamento pare richiamare un ultimo tentativo di spiegarsi. Così questo passaggio, che è riferito a sé, si potrebbe rivolgere come invito a una maggiore umiltà nel leggere la storia del presente: “Se non capisco una cosa non è perché sia sbagliata ma perché io sono troppo piccino per comprenderla”. Allora Ratzinger ricorda concetti che gli sono propri da sempre e ribadisce che “la Chiesa è in movimento, dinamica, aperta” (p. 43). Bisogna tornare fino al giovane perito al Concilio Vaticano II, un teologo che si definiva “progressista” (83); consapevole della volontà dei vescovi di “rinnovare la fede, di renderla più profonda” (135), e libero poi di osservare come nel post Concilio “quello che volevamo, questo nuovo, veniva distrutto” (138). “Abbiamo agito in modo corretto, anche se non abbiamo valutato le conseguenze politiche e gli effetti concreti delle nostre azioni. Abbiamo pensato troppo da teologi e non abbiamo riflettuto sulle ripercussioni che le nostre idee avrebbero avuto all’esterno” (135).
Anche oggi Benedetto XVI pare meno preoccupato delle conseguenze politiche della sua rinuncia invitando piuttosto a osservarne la sostanza. Anche se del riverbero pubblico ne è consapevole come in un’intervista alla Faz del luglio 2014, quando rivelò che avrebbe preferito essere chiamato “Padre Benedetto”, ma poi era “troppo debole e stanco” per riuscire a imporsi. E forse, anche, prevalse quello che Gaenswein svelò ad Avvenire: “Il titolo di papa emerito lo ritiene corrispondente alla realtà”.
Proprio perché più teologo che politico. Tanto che in un altro passaggio delle sue conversazioni con Seewald, Ratzinger risponde serenamente persino sulla profezia di Malachia, ormai riconosciuta falso storico cinquecentesco, ripescata fuori a ogni Conclave per dare una pennellata di colore ai pezzi dei cronisti. Un elenco di papi che dovrebbe prevedere la fine del mondo e che si è esaurita con Ratzinger e Bergoglio. Qui l’emerito conferma l’attribuzione di quel testo fornita dal suo segretario in giugno, riferendola ai circoli nati intorno a Filippo Neri: “A quell’epoca i protestanti sostenevano che il papato fosse finito e lui voleva solo dimostrare con una lista lunghissima che non era così. Non per questo però si deve dedurre che finirà davvero”, dice Ratzinger (218). Un passaggio giudicato clamoroso da alcuni osservatori, come se Benedetto stesse dicendo che il papato con lui è davvero cambiato per sempre; ma che se letto nell’insieme delle oltre 600 risposte fornite dall’emerito ha un tono più tranquillo che sorprendente. Lui è consapevole di avere dato quel che poteva e doveva. Cioè: “Mostrare cosa significa la fede nel mondo di oggi”.
L’EMERITO CONFERMA GAENSWEIN ANCHE SULLO IOR
Si è molto insistito in questi giorni sulla presunta differenza di letture sul licenziamento di Ettore Gotti Tedeschi dallo Ior nel 2012. Oggi l’emerito dice che fu un passo da lui condiviso. Nel 2013, al Messaggero, Gaenswein diceva che il papa “restò sorpreso, molto sorpreso per l’atto di sfiducia al professore”. Allora il papa è costretto a mentire, ma da chi? Si è chiesto Maurizio Blondet.
Attenzione, osserva Aldo Maria Valli, quella riposta di Gaenswein va letta per intero. Aggiunse infatti il vescovo Georg: “Il papa lo stimava e gli voleva bene [sta parlando di Gotti Tedeschi], ma per rispetto delle competenze di chi aveva responsabilità scelse di non intervenire in quel momento. Successivamente alla sfiducia, il papa, per motivi di opportunità, anche se non ha mai ricevuto Gotti Tedeschi, ha mantenuto i contatti con lui in modo adatto e discreto”. “Dunque sì – commenta Valli – Benedetto fu sorpreso, e anche dispiaciuto, per la dura decisione del board dello Ior contro Gotti Tedeschi, ma, per rispettare la libertà e la competenza di quell’organismo, scelse di non intervenire, e in quel modo di fatto avallò la decisione di licenziare il banchiere piacentino. E a questo proposito posso aggiungere che chi conosce bene Ratzinger sa che un simile comportamento gli si addice perfettamente”. Va comunque ricordato che Ratzinger in Ultime conversazioni non risponde “sì” alla domanda se fosse stata una sua idea rimuovere Gotti Tedeschi, ma solo alla conferma che è sua la scelta del successore (p.209).
PONTIFICATO DI ECCEZIONE. DOVE IL PROF RATZINGER CORREGGE L’ALLIEVO GEORG
A maggio Gaenswein aveva parlato di un pontificato d’eccezione (Ausnahmepontifikat) che Guido Ferro Canale, in un articolo proposto da Sandro Magister sul suo blog, riconduce all’idea dello stato di emergenza di cui parla Carl Schmitt. Quale emergenza la Chiesa sta attraversando per arrivare alla necessità della rinuncia papale come reazione adeguata?
È questo l’unico punto in cui Ratzinger forse corregge, perché non la riprende esplicitamente, l’espressione dell’arcivescovo Georg. E probabilmente qui c’è pure l’unico passo indietro di Gaenswein, che parlando a Monaco il 12 settembre sottolinea perché Seewald non rievochi con Ratzinger la scena del Quo Vadis, il leggendario “dove vai?” del dialogo tra Cristo e un Pietro spaventato, in fuga da Roma. Sarebbe calzata a pennello. Ma era inutile: è chiaro che Benedetto con le dimissioni non fuggiva da nessuna città in fiamme, e nessun lupo ululava sotto la sua finestra, dice oggi padre Georg. Non c’erano stati di emergenza per la Chiesa. “Uno non può dimettersi quando le cose non sono a posto, ma solo quando tutto è tranquillo”, precisa Ratzinger (p.38).
Una scelta libera, ripete continuamente l’emerito rispondendo alle domande di Seewald. Una decisione presa in un continuo dialogo con Dio. Un passo che gli appariva e gli si conferma evidente: “Vedo ogni giorno che era la cosa giusta da fare” (40). E con lo humor che gli è proprio, ci fa sapere che anche il riposo notturno in quei giorni del 2013 non gli è mancato.