Chi ha caricato il vertice di Bratislava di un incontro straordinario sul futuro dell’Unione europea, ha sbagliato prima e il giorno dopo di più. Un summit in cui la Gran Bretagna, che pur rimane membro a tutti gli effetti, non ha preso parte anche se di Brexit si è parlato e invece non si è voluto parlare e decidere davvero il percorso del futuro prossimo dell’Europa. Un vertice ambizioso, necessario viste anche le prossime scadenze elettorali e referendarie in diversi paesi europei.
Quella che è arrivata e uscita da Bratislava è però un’Europa “a pezzi”, sempre più divisa al suo interno e con vari raggruppamenti che cambiano a seconda del dossier trattato e soprattutto evidenziando che nessun compromesso è stato raggiunto. L’unica evidenza è stata da parte del governo slovacco, che come presidente di turno del Consiglio, ha presentato un piano per tornare a un’Europa delle nazioni con un indebolimento delle istituzioni comunitarie che seppellisce il progetto europeo.
Il gruppo più strutturato è quello di Visegrád, che riunisce Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria,costituitosi prima dell’ingresso di questi paesi in Europa, che aveva tra gli obiettivi principali quello di sostenerne il percorso di adesione e oggi invece è il gruppo che riunisce i governi più euroscettici d’Europa. Anche i recenti vertici di Ventotene (Italia, Francia, Germania) e di Atene (con i paesi del sud Europa a favore di politiche fiscali più permissive, costituito come contraltare al fronte dei paesi pro–rigore del Nord) sembrano funzionare più da specchio delle fratture interne che da forum per la ricerca del compromesso prima delle riunioni a 27 o a 28.
Queste rotture complicano l’efficacia del lavoro a livello comunitario tanto che, ad esempio, a fronte degli oltre 25 summit tenuti tra il 2015 e il 2016 sulle migrazioni, tutte le proposte di mediazione della Commissione sono state respinte. Ciò alimenta ulteriormente l’ascesa di partiti anti–establishment ed euroscettici, formazioni che raccolgono un crescente consenso in quasi tutti i paesi europei. Così la politica di difesa e controllo delle frontiere è in alto mare, come le proposte ragionevoli di creare un quartier generale comune per gestire le missioni europee e la questione di una maggiore flessibilità di bilancio per investimenti nel settore della difesa, come per esempio la Guardia costiera. E, per la lotta al terrorismo, che approdo ha la proposta di creare un sistema rapido di condivisione di informazioni tra le agenzie di intelligence dei paesi europei? Per correggere l’assenza di coordinamento tra le polizie nazionali, e la creazione di una lista unica in Europa delle persone sospette? E per il Piano degli investimenti?
Bisogna ricordare che l’Europa ha perso circa 370 miliardi di euro all’anno di investimenti rispetto al trend di crescita pre–crisi, e resta ancora da verificare quanti degli investimenti attribuiti al piano Juncker (116 miliardi) davvero non sarebbero avvenuti senza l’apporto determinante di nuovi capitali di cui però non abbiamo dettagliatamente notizia. Sulle politiche migratorie il fumo più denso: la Commissione ha proposto un nuovo Piano per gli investimenti esterni che, a fronte di 3,5 miliardi di euro di risorse comunitarie, dovrebbe mobilizzare investimenti per 44 miliardi a sostegno dello sviluppo dei paesi di origine e transito dei migranti. I capitali andrebbero a sommarsi al Fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa, creato l’anno scorso, cui la Commissione ha già versato la sua quota di 1,8 miliardi di euro. Al contrario gli stati membri sono ancora fermi a soli 82 milioni, meno del 5% di quanto previsto inizialmente.
Oltre alla aleatorietà delle cifre (l’impatto sull’Africa può davvero farsi sentire solo se queste sono cospicue) la proposta maschera la mancanza di consenso tra i paesi europei sulle politiche di gestione dei flussi migratori e questo è drammaticamente evidente. In Italia noi dobbiamo fronteggiare la schizofrenia dei dati: Confindustria stesa sul governo Renzi anche sul lago a Cernobbio, ha finalmente dato i numeri veri e tagliato le sue stime che in agosto avevano fatto furore in difesa di una crescita che invece non c’è. Ma è proprio Confindustria che deve cambiare registro e favorire nel rinnovo dei contratti la contrattazione decentrata che da ben il 2011, con la deroga e l’incentivo alla produttività di prossimità, dice di voler sviluppare e invece frena clamorosamente. Il Pil italiano misurerà un blandissimo rialzo dello 0,7 per il 2016 e addirittura dello 0,5 nel 2017 e la Banca d’Italia ha annunciato che il nostro debito pubblico è aumentato di 3,4 miliardi, raggiungendo i 2,252 miliardi. Così stiamo e non in salute.