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Cosa dissero (e non dissero) gli intellettuali del dramma di Aldo Moro e della Dc

Di Tommaso Labate
Moro

“La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”. La nota dei familiari dello statista democristiano chiudeva definitivamente quelli che sarebbero stati ricordati come i cinquantacinque giorni che avevano sconvolto l’Italia.

Il dramma umano e politico di Moro e della Dc si era consumato sotto i riflettori di un Paese ormai da anni attraversato da violenti conflitti sociali e di una società civile stretta tra la sfiducia nei partiti e nelle istituzioni da un lato, e il terrorismo che cercava di inferire al sistema il colpo mortale dall’altro.

L’attacco sferrato dalle Brigate rosse al cuore dello Stato fu l’occasione per riproporre – e forse dare una svolta – l’annoso “problema degli intellettuali”. Quello, per intenderci, del rapporto tra politica e cultura spesso viziato, dal punto di vista metodologico, dalla falsa generalizzazione di coloro che, dal dopoguerra al post-sessantotto, avevano annunciato a turno la “decadenza”, la “fine”, il “tramonto” o il semplice “disagio” dei maître à penser all’interno della società. Stato, Br o nessuno dei due? Fermezza o trattativa? Difesa a oltranza delle istituzioni o soluzione umanitaria? Sul terreno di questi punti di domanda – dal giorno in cui venne recapitata la prima delle lettere di Aldo Moro dalla prigionia – si consumò una delle più laceranti spaccature all’interno dell’intellighenzia italiana.

Da una parte c’era chi, scorgendo nello strapotere dei partiti la causa del “deficit di democrazia” che stava attraversando il Paese, si oppose al tentativo di sventolare sempre e comunque la bandiera della “ragione di Stato”; dall’altra, quelli che si strinsero attorno all’esigenza di offrire una sponda intellettuale al maggioritario partito della fermezza sviluppatosi sull’asse Piazza del Gesù-Botteghe Oscure.

L’agguato di via Fani, il varo del governo Andreotti sostenuto dal Pci, la gente in piazza, sorpresero nel sonno il mondo della cultura italiana. “Viltà o bisogno di riflessione?” si chiese il Corriere della Sera. “Se è vero che gli intellettuali non hanno subito aperto il becco, dico: hanno fatto bene”, fu il commento a caldo di Norberto Bobbio. Lucio Colletti, ormai da tempo uscito dall’orbita del Pci, pose l’accento sulla tendenza elusiva di una parte del mondo intellettuale “impegnato” rispetto ai problemi della società civile riguardo a questioni che non si potessero politicamente “strumentalizzare in qualche modo”. Furono queste, le prime lievi scosse contro quegli intellettuali silenti che – scrisse in quei giorni Carlo Cassola – “avrebbero dovuto essere presenti e non lo sono stati sin dal 1945, dopo Hiroshima”. “Da taluni ambienti della società italiana c’è stata una eccessiva permissività e confusione di idee, si sono tollerate, con colpevole facilità se non proprio giustificazioni, perlomeno comprensioni troppo benevole. Stiamo pagando a caro prezzo tutto questo”, scrisse sul Popolo Renzo De Felice. Il 19 marzo, giorno successivo all’apertura del processo a Moro nel “tribunale del popolo”, il direttore di Paese sera Aniello Coppola offrì l’incipit al dibattito vero e proprio.

In un editoriale intitolato provocatoriamente “Non è tempo di cicale”, Coppola lanciò una feroce accusa a quella parte degli intellettuali – Leonardo Sciascia in primis – che aveva taciuto mentre operai, studenti, casalinghe non avevano rinunciato “a farsi sentire, a contare, a pensare con la propria testa, a far valere la ragione e il sentimento”. Valeva la pena – era la questione di fondo – difendere quello Stato nonostante “i tanti motivi per essere insoddisfatti della democrazia (in Italia)”? Per il direttore di Paese sera sì. Per Coppola, con il sequestro Moro, era finito il tempo delle “cicale”, di intellettuali che dialogavano sterilmente con altri intellettuali, il tempo dello sfoggio stilistico o dell’essere – sempre e comunque – “contro”. La preclusione anticomunista era stata accantonata, provocando l’isolamento della destra e del terrorismo rosso. Destra e terrorismo, commentò Coppola, per risorgere avrebbero avuto bisogno di masse che si estraniassero dalla democrazia e “di intellettuali chiusi in una torre d’avorio come Sciascia”. (“I terroristi che sparano sono, disgraziatamente, molto più precisi di quanto non lo sia Coppola nello scrivere”, fu la replica dello scrittore siciliano). Il pungolo mise nell’angolo anche Alberto Moravia che sul Corsera scrisse che non solo non “avrebbe mai voluto scrivere una sola riga come quelle che scrivono le Brigate rosse nei loro proclami” ma che – nel contempo – non avrebbe “mai scritto una sola delle tantissime parole che, in discorsi, articoli, libri, hanno scritto gli uomini dei gruppi dirigenti italiani negli ultimi trent’anni, né fatto una sola delle tantissime cose che essi hanno fatto da quando sono al potere”. Era il terreno su cui si sarebbe fondata la teoria dell’equidistanza Stato-Br che più avanti Lotta continua avrebbe riassunto con lo slogan “né con lo Stato né con le Br”. Gli intellettuali uscirono dall’impasse con un manifesto pubblicato dall’Unità il 20 marzo. Ventitre uomini di cultura e spettacolo – Norberto Bobbio, Italo Calvino, Federico Fellini e Moravia stesso – “scesero in campo” esprimendo una condanna “totale e senza sfumature” del terrorismo. Il nucleo centrale dell’appello riguardava “l’impegno severo per difendere le istituzioni repubblicane e le stesse condizioni nel nostro Paese per lo svolgimento di una vita civile e politica democratica”.

L’intervento dei “ventitre” inasprì le posizioni di chi, come Sciascia, aveva difeso i cittadini che nel 1977 si erano rifiutati di fare parte della giuria della Corte d’Assise di Torino che stava processando il nucleo storico delle Br. In quel contesto parte la controffensiva nei confronti degli intellettuali “pro Stato” e il Manifesto mette sotto accusa la politica “zdanovista” del Pci sulla cultura. È il preludio al “né con lo Stato, né con le Br”, della piattaforma lanciata da Lotta continua. Tutti colpevoli, nessuno escluso: le Br, che sequestrando Moro avevano reso possibile “la trasformazione autoritaria dello Stato”; le masse “insensatamente compatte” per non aver compreso i rapporti di forza Stato-Pciproletariato; ma soprattutto il Pci dell’ “album di famiglia” condiviso con le Br (Rossana Rossanda) che chiedeva “controinformazione di massa, inchiesta, denuncia ed epurazione contro il terrorismo di sinistra, a parole, le avanguardie della sinistra rivoluzionaria, nei fatti” (Marco Boato).

Fu Lotta continua ad ospitare l’appello “al governo italiano, al parlamento, ai partiti, a coloro che detengono Aldo Moro e a tutte le forze, le istituzioni, le persone che hanno autorità di fare i passi necessari e formali per la liberazione di un uomo che sta pagando e ha pagato un prezzo altissimo”. Il documento trovò molte sponde tra gli intellettuali che di sinistra non erano e parallelamente si mosse Craxi. Il 28 aprile trentuno intellettuali per la fermezza (tra questi Lucio Colletti, Renzo De Felice, Giovanni Ferrara, Leo Valiani, Rosario Villari) firmarono un manifesto sull’Unità in cui si metteva in rilievo “l’allarme per le prese di posizione di uomini politici, di intellettuali, di professionisti che rivelano una inammissibile incertezza su questioni vitali per la sopravvivenza e l’avvenire della democrazia italiana”. E ancora: “Il dramma umano dell’onorevole Moro è presente alla coscienza di noi tutti ed è di tutti noi l’auspicio per la sua liberazione. Questi sentimenti non possono e non debbono oscurare il dovere, doloroso ma non eludibile, di tutelare oggi, con estremo vigore, gli interessi generali della collettività. (…) A questi principi, i partiti dell’arco costituzionale devono continuare a rimanere fedeli, se non vogliono tradire la loro funzione di difesa intransigente delle istituzioni e delle leggi dello Stato democratico”. Fu la sponda intellettuale al fronte della fermezza che resse fino alla fine.

Il ritrovamento del cadavere di Moro segnò uno spartiacque anche nel modo di interpretare il rapporto tra politica e cultura. L’intellighenzia italiana si divise, anche se il caso Moro non fu l’occasione attesa per un decennio (e teorizzata nel 1975 da Pasolini) per “processare” l’intera classe dirigente del Paese. Quest’occasione sarebbe arrivata con il terremoto politico-giudiziario del 1992. Ma nel frattempo, il mondo della cultura pareva già rientrato nella sua angusta torre d’avorio.



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