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Perché la voracità degli investimenti cinesi in Africa preoccupa l’Occidente

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Lo scorso luglio una nota dell’agenzia di stampa cinese Xinhua ha annunciato la firma di diversi accordi commerciali, da parte d’imprese e istituzioni finanziarie cinesi e africane, per un valore complessivo di 17 miliardi di dollari . La nota, breve e discreta come solo i cinesi sanno essere, rappresenta un’ulteriore dimostrazione del sodalizio commerciale e finanziario sino-africano sulle cui conseguenze ci si interroga da più di un decennio. D’altra parte il continente nero è tornato prepotentemente ad attrarre le attenzioni dell’occidente, soprattutto in queste settimane, in cui temi come l’immigrazione, montano le scale delle priorità nelle politiche estere nazionali. L’Italia è tra i primi paesi a mettere sul tavolo nazionale ed europeo la questione africana attraverso l’Africa Act che, negli intenti, dovrebbe rappresentare un fondo fiduciario in grado di produrre un effetto moltiplicatore sugli investimenti italiani nel continente nero, e il Migration compact, il cui obiettivo principale è quello di contenere il fenomeno migratorio mediante una collaborazione più stringente tra i paesi europei e quelli africani sul controllo dei flussi in cambio di un accesso privilegiato ai mercati finanziari europei. Insomma, l’Europa e i suoi stati ci provano in Africa, non solo a contenere fenomeni come l’immigrazione, piaga che ha messo a dura prova gli equilibri politici europei negli ultimi mesi, ma a porsi come valida alternativa in termini di crescita finanziaria e commerciale.

Sotto questo profilo la concorrenza cinese da adito a riflessioni e considerazione che spesso non danno credito alle peculiarità storiche della relazione sino-africana.
Quest’ultima è considerevolmente cambiata rispetto alle sue origini, allontanandosi dall’affascinante terzomondismo che lo aveva caratterizzata cinquant’anni prima durante la storica conferenza di Bandung. La matrice ideologica è stata col tempo accantonata in favore di scambi, “favori” e ragioni sia economiche sia commerciali, cresciute esponenzialmente dagli anni 90 fino ai nostri giorni. Dall’altra parte del mondo, l’occidente, dal proprio pulpito, esprime le sue perplessità su questo rapporto, accusando la Cina d’implementare la propria politica estera in maniera aggressiva e speculatrice, convinto, allo stesso tempo, che questo possa essere l’ennesimo smacco sullo scacchiere internazionale da parte di una delle potenze economiche più temute oggigiorno.

La Cina in Africa cancella debiti, firma accordi di cooperazione economica, sostiene i propri imprenditori, facilitandone il credito, affinché investano nel continente. A oggi il patchwork geografico degli investimenti cinesi in Africa comprende la maggior parte dei Paesi, fatta eccezione per i soli che riconoscono Taiwan, che sono ugualmente corteggiati dalla diplomazia cinese nei consessi internazionali e in quelli sino-africani in particolare. Dalle infrastrutture marocchine, al petrolio algerino, dal cobalto congolese ai diamanti e nichel zimbabwano, dal rame zambiano al legname della Repubblica Centrafricana e del Gabon, la varietà e quantità degli investimenti si estende da Città del Capo fino alle piramidi egiziane. Il terreno su cui gli investimenti cinesi si concentrano è fertilissimo e, allo stesso tempo, situato in un ambiente la cui trasparenza lascia a desiderare.

Nel 2006, l’anno in cui i dragoni vengono allo scoperto, per volontà della stessa Pechino, attraverso la pubblicazione del documento “La politica della Cina in Africa”, il vice presidente cinese in visita nel continente dichiarò pubblicamente: “Noi non faremo domande”. Mai ne hanno fatte, tratto peculiare della politica di cooperazione cinese è la totale mancanza della cosiddetta condizionalità politica, propria, invece, della vocazione europea e occidentale. Niente clausole democratiche dunque. Nel nome della “non ingerenza negli affari interni” questa politica incontra il benestare di diversi leader politici africani, ancorati alla retorica terzomondista e panafricana in chiave antioccidentale. La voracità degli investimenti cinesi in Africa, i dragoni, quelli che gli economisti chiamano Investimenti diretti esteri (Ide), si concreta sotto varie forme, ma lo zenit rimane il petrolio, con Sudan, Nigeria e Angola i principali beneficiari e fornitori di greggio. Altro dato significativo è che la maggior parte degli investimenti confluiscono nei Paesi dove le risorse naturali sono più prospere, infatti, l’elemento caratteristico della cooperazione sino-africana è proprio lo scambio infrastrutture-materie prime.

Se la matrice degli scambi è sostanzialmente economica e commerciale, le conseguenze sono anche politiche e diplomatiche. Nelle grandi organizzazioni internazionali, come l’Onu e l’Omc, il voto di scambio rischia di compromettere seriamente i delicati equilibri tra Stati, riducendo il ruolo occupato dalle vecchie potenze occidentali. Del resto contenere i dragoni non è cosa facile, e gli Stati Uniti lo sanno bene, scalzati dalla Cina nel ruolo di primo partner commerciale nel continente nero nel 2009 . Recuperare il terreno perduto a favore dei cinesi sembra un’impresa troppo ardua per l’amministrazione americana. Anche in Europa alcuni Paesi hanno mostrato preoccupazione sulla scalata della Cina in Africa. La cosiddetta cooperazione trilaterale nasce nei principi come azione rivolta al mutuo sviluppo, nei fatti si è trasformata in politica di contenimento. L’occidente, insomma, si preoccupa e, secondo molti, fa bene. La Cina ha tutti gli strumenti (e forse anche gli intenti) per utilizzare l’Africa nella sua corsa verso l’inarrestabile conquista planetaria.

Nessuno ha la responsabilità di salvare l’Africa dalla Cina, anche perché nessuno ne ha fatto richiesta. Anzi, in più di qualche Paese africano l’invasione cinese viene accolta in modo positivo. Al giorno d’oggi è molto semplice percepire la presenza dei dragoni africani, dalle comunicazioni ai trasporti, dal controllo delle acque all’industria tessile e agroalimentare. Ciononostante, persistono molteplici dubbi sulla qualità degli investimenti e sulla loro efficacia nel lungo periodo. Che la bramosia dei cinesi in Africa sia motivata dallo sfruttamento delle risorse naturali e dalla ricerca di nuovi mercati dove collocare i propri prodotti è sotto gli occhi di tutti, ma risulta difficile credere ancora una volta che l’Africa sia stata soggiogata e obbligata in questo rapporto cosi singolare. È altrettanto vero che la sostenibilità economica di questo rapporto ha destato non poche preoccupazioni anche da parte degli africani. L’incremento degli scambi commerciali aumenta smisuratamente, pendendo a favore di Pechino e ciò spiana la strada a una dipendenza cronica di cui nessun Paese africano ha bisogno.

Il dato importante è che gli Ide in Africa sono in costante declino, in questo senso la Cina risponde a un’esigenza stringente che rasenta quasi la necessità di sopravvivenza stessa del continente. È questo il vero problema dell’Africa, non il solo ovviamente. In Africa s’investe poco e in molti casi male. L’unico dato certo è che nel continente nero la Cina avanza mentre l’altra parte del mondo rimane a guardare. E se l’occidente aspetta, critica e si interroga sulle eventuali conseguenze che questa relazione speciale potrà avere in futuro, allora hanno ragione i cinesi: “Devi attraversare il fiume prima di dire al coccodrillo che ha un cattivo alito”.

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