In politica non salgono solo i tecnici, ma anche i magistrati. E da tempo ormai. Nel 1996 i giudici eletti in Parlamento furono addirittura 23. Tredici nel 2008. E per la prossima legislatura si attendono new entry pesanti, come quelle di Antonio Ingroia, Piero Grasso e Stefano Dambruoso.
Di recente il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, ha sottolineato il problema di opportunità che l’impegno politico dei magistrati crea, soprattutto nell’ottica di equilibrio tra poteri dello Stato.
Che i rapporti fra il potere politico e il potere giudiziario non siano idilliaci è cosa arcinota.
L’apice delle tensioni è stato raggiunto durante i governi presieduti da Silvio Berlusconi, a colpi di leggi ad personam e avvisi di garanzia apparsi sui giornali prima di essere recapitati ai legittimi destinatari.
Ma la “guerra dei vent’anni” fra politica e magistratura precede la discesa in campo di Berlusconi.
Nel famoso biennio ‘92/’93, in piena Tangentopoli il ruolo dei giudici andava ben oltre le prerogative costituzionali. Racconta l’ex senatore socialista Gennaro Acquaviva – in “La trattativa fallita” – ebook che ho realizzato per Formiche – che all’indomani delle elezioni del 1992, Scalfaro non incaricò Bettino Craxi di formare il governo, per il “parere decisivo” di Francesco Saverio Borrelli. Il capo della Procura di Milano aveva partecipato alle consultazioni del Presidente della Repubblica e ne aveva condizionato l’esito. E questa era una piccola avvisaglia, di quello che sarebbe successo pochi mesi dopo, a marzo 1993, la data di inizio della guerra dei vent’anni.
A febbraio, addirittura in un intervento pubblico Antonio Di Pietro disse “solo oggi una quindicina di persone sono state da me per confessare tangenti. Non se ne può più e francamente non vedo l’ora di finire. Sono contrario all’ipotesi di condono, ma ci vuole un chiarimento che
vada oltre la magistratura. Sono per una soluzione di tipo politico, altrimenti ogni giorno può succedere qualcosa”.
I giudici perseguono e accertano responsabilità penali personali. Mani pulite era però un processo al sistema, oltre gli individui. In quei giorni anche Ezio Mauro dalle colonne de La Stampa chiedeva di“evitare il colpo di spugna per tutti, ma anche il massacro indistinto dei piccoli colpevoli accanto ai grandi colpevoli”. E ammoniva “solo la politica può restituirci la capacità perduta di distinguere”.
In Senato si stava quindi preparando un provvedimento che separasse i destini di chi rubava per il partito da chi rubava per sé, in modo da offrire la soluzione invocata da Di Pietro e far uscire la politica dalle secche dell’immobilismo. In commissione il relatore –il senatore
socialista Luigi Covatta – lavorava a misure che avrebbe depenalizzato il finanziamento illecito ai partiti per distinguerlo dalla corruzione personale. Racconta in “La trattativa fallita”, “pregai la segretaria generale della presidenza del consiglio Fernanda Contri di
ottenere il parere favorevole del pool di Milano e mi disse di andare avanti. Durante il mio lavoro riferivo quotidianamente anche a Gaetano Gifuni, segretario generale della Presidenza della Repubblica”. Dopo l’avviso di garanzia al segretario repubblicano Giorgio La Malfa,
si decise un’accelerazione. La Commissione del Senato votò il testo e il ministro Conso lo recepì per trasformarlo in decreto. E così il governo varò il 5 marzo 1993 il pacchetto Conso, con all’interno il decreto legge che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti, senza
assolutamente intaccare le fattispecie di corruzione o concussione.
Niente più carcere per chi rubava per il partito, ma “solo” una multa pari al triplo del maltolto e l’interdizione dai pubblici uffici. Era questa la “soluzione politica” a Tangentopoli. Paolo Cirino Pomicino, nello stesso ebook, racconta che il testo del decreto fu limato e concordato al telefono dal premier Giuliano Amato e dal capo dello stato Oscar Luigi Scalfaro durante il consiglio dei ministri. Ma il consenso attorno al decreto durò due giorni. Il sette marzo il capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli chiamò i giornalisti e in diretta televisiva disse “non abbiamo chiesto noi il decreto Conso, che invece porterà alla paralisi delle nostre indagini”. I giornali lo seguirono a ruota e Oscar Luigi Scalfaro decise di negare la firma al decreto. Era la prima volta
che un capo dello stato negava la firma ad un decreto legge.
Cosa successe dopo? Giuliano Amato offrì le proprie dimissioni a Scalfaro che gli chiese di restare in carica un altro mese, per far svolgere i referendum.
Il potere giudiziario aveva chiesto e ottenuto che il governo rinunciasse alla propria funzione legislativa. Provocandone, di fatto, anche la caduta. Ma quel 7 marzo non cadde solo il governo Amato, finì l’esperienza di tutta la Prima Repubblica. Segata da un intervento di un giudice.
Proprio Giuliano Amato, anni dopo, tornando sul decreto Conso ribadì a margine di un convegno a Borrelli “se c’è solo il sospetto della corruzione o della concussione anche l’illecito finanziamento viene attratto dalla competenza del giudice e quindi la depenalizzazione
riguarda solo quel finanziamento che non è connesso a corruzione o concussione”. Borrelli annuì e rispose “però molto spesso le nostre indagini possono partire solo dal finanziamento illecito”.