“Oggi Roma si è svegliata senza gladiatori”, titolavano molti quotidiani il 26 novembre dell’anno scorso. In verità, i figuranti in costume aboliti dall’ordinanza del commissario Francesco Paolo Tronca erano centurioni. Poco importa, perché nessun’altra espressione della cultura romana ha oggi, in Italia e all’estero, una popolarità paragonabile a quella dell’arte gladiatoria. Hollywood l’ha raccontata in film memorabili come “Spartacus” di Stanley Kubrick (1960) e “Il gladiatore” di Ridley Scott (2010). I due grandi registi sono gli epigoni di una lettura del fenomeno che risale all’Ottocento. Nel famoso dipinto di Jean-Léon Gérôme “Pollice verso” (1872) e nel romanzo di Henryk Sienkiewicz “Quo Vadis?” (1896), ad esempio, l’anfiteatro è brulicante di una folla in preda al fanatismo e avida di violenza. È il luogo in cui si consuma simbolicamente la decadenza di una civiltà, alla quale si possono opporre solo uomini “puri” e non contagiati dalla corruzione della metropoli. Nell’opera del polacco Sienkiewicz sono i Ligi, antenati dei connazionali dello scrittore. Nella pellicola di Kubrick è uno schiavo trace, in quella di Scott un generale ispanico.
Come sostiene l’eminente studioso tedesco dell’antichità Christian Mann (“I gladiatori”, il Mulino, 2013), i gladiatori erano gestiti dai “lanistae”, una specie di imprenditori che li noleggiavano o li vendevano per i combattimenti (“munera”) dopo aver provveduto al loro addestramento. Le nuove reclute da destinare ai combattimenti erano prigionieri di guerra, schiavi o criminali. Ma molti giovani, poco abbienti e di umile lignaggio, sceglievano volontariamente questo mestiere. Arruolarsi in una caserma di gladiatori significava avere un salario decente, vitto e alloggio assicurati, una buona assistenza medica. Tuttavia, erano mossi anche dalla prospettiva di diventare star dell’arena. I romani incidevano sulle pareti delle case e degli edifici pubblici i nomi dei propri beniamini proprio come i tifosi odierni scarabocchiano sulle panchine o sui muri i nomi dei loro calciatori preferiti. Ha confessato proprio uno dei più ammirati calciatori romani (e romanisti) del nostro tempo: “Non ho alcun dubbio: sarà per il fatto che in quest’arena avevano luogo sfide tra grandi campioni, sarà che i gladiatori si suddividevano in ruoli precisi, sarà che diventano personaggi molto conosciuti, idoli delle folle, ebbene sì, il Colosseo è il mio monumento preferito e io oggi mi sento un moderno gladiatore!” (Francesco Totti, “E mo’ te spiego Roma”, Mondadori, 2012).
L’allestimento dei “munera” comportava spese notevoli, e i sussidi pubblici spesso non riuscivano a coprirle. Inoltre, gli unici a pagare i biglietti d’ingresso erano i forestieri, mentre gli aristocratici più influenti li distribuivano gratuitamente aIlle loro clientele. I pretori pagavano quindi di tasca propria buona parte dei costi, ma in cambio si aspettavano di essere “onorati” dai concittadini. Questa pratica era denominata “evergetismo” (da “euergetes”, benefattore). Chi aveva fatto del bene alla comunità, come finanziare un spettacolo, poteva contare sul suo rispetto perché aveva anteposto le esigenze municipali agli interessi personali. Ovviamente, la generosità di questi mecenati era legata anche a valutazioni di carattere politico e alle rivalità esasperate tra le élite cittadine: investire sesterzi in un “munus” piuttosto che nella costruzione di un acquedotto poteva essere più conveniente per acquisire consenso e fama duratura. E poi i romani attribuivano un enorme valore al coraggio fisico e al disprezzo della morte. Per Cicerone (106-43 a.C.) il gladiatore era un modello morale, poiché aveva imparato a soffocare gli impulsi di viltà. Perfino Agostino d’Ippona (354-430) chiedeva ai cristiani di mostrare “tempra da gladiatori” nei passaggi più difficili della vita e nell’accettare la propria sorte senza lamentarsi. L’anfiteatro era lo specchio di rigide gerarchie sociali e, nel contempo, fungeva da catalizzatore dell’unità delle masse popolari. I posti erano assegnati in base al ceto di appartenenza, ma anche l’ultimo degli spettatori si sentiva partecipe del potere di vita o di morte sui reietti che si scontravano nell’arena, e dunque superiore a loro.
Il declino dei “munera” comincia con l’affermazione del cristianesimo come religione dominante dell’impero. L’ultimo combattimento gladiatorio a Roma di cui abbiamo notizia si svolse il primo gennaio 404. Il giorno è stato convenzionalmente adottato dalla tradizione cattolica per celebrare il martirio di Telemaco, un monaco di origine asiatica lapidato da una folla infuriata perché aveva tentato di impedire un “munus”. Mann ha analizzato il significato del momento cruciale del “munus”: la richiesta della grazia (“missio”) da parte dello sconfitto. Il gladiatore rischiava la morte, ma la sua concessione lo riportava tra i vivi. Questo elemento simbolico poteva essere considerato antagonistico o concorrenziale con la dottrina paolina della morte e della resurrezione. Forse anche per questo motivo, a differenza di altre forme di spettacolo cruente, i combattimenti tra gladiatori furono cancellati dalla nascente civiltà cristiana.