Onestà cristallina e vittima di un complotto dei “poteri forti”: ha tutte le carte in regola per entrare nel Pantheon culturale del M5S. Parlo di Ippolito Nievo, l’autore di quelle “Confessioni di un italiano” che a molti studenti di scuola media ha dato qualche grattacapo. Se per caso Beppe Grillo dovesse leggere queste note, chissà che il mio piccolo suggerimento non lo incuriosisca.
Il 4 marzo 1861 il vascello a vapore “Ercole” salpa dal porto di Palermo diretto a Napoli. Verso l’alba del giorno seguente, durante una tempesta affonda al largo della costa di Sorrento. Nessun superstite. Tra gli scomparsi, il tesoriere dell’esercito garibaldino, Ippolito Nievo. Nella stiva erano custoditi i documenti contabili relativi alla provenienza e alla gestione dei fondi che avevano finanziato la spedizione dei Mille. Un’inchiesta ministeriale stabilisce che il naufragio era stato causato da un incendio dei motori del vecchio piroscafo. La versione è poco convincente e sembra fabbricata a tavolino, ma mancano le prove per confutarla. Poi il silenzio.
Il 5 marzo 1961, esattamente un secolo dopo il tragico incidente, il noto documentarista Stanislao Nievo (1928-2006), pronipote di Ippolito, annuncia la sua intenzione di risolvere il mistero. Setaccia archivi e biblioteche, fruga nell’epistolario dell’avo, ne ricostruisce gli affetti, le speranze, le ambizioni. Ingaggia sensitivi, paragnosti, sommozzatori e perfino il leggendario batiscafo di Jacques Piccard per localizzare i resti del battello in cui erano annegati ottanta innocenti. La ricerca dura otto anni, ma il relitto non viene rintracciato. Da questo viaggio in cerca della verità sulla morte del prozio nasce un testo bizzarro quanto fortunato (vincerà il Premio Campiello), “Il prato in fondo al mare” (1974). Nell’introduzione al tascabile Mondadori del 1977, Cesare Garboli vede nella vicenda la rappresentazione di una “sospetta strage di Stato italiana, maturata dalla Destra e decisa dal potere piemontese per liquidare la Sinistra garibaldina: ‘strage’ con la quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita”.
Questa lettura viene sposata da Umberto Eco nel romanzo “Il Cimitero di Praga” (2010). Il primo sporco affare di cui si occupa il suo protagonista, il camaleontico e abilissimo falsario Simone Simonini, è proprio la soppressione di Ippolito Nievo. Il patriota è in possesso di carte compromettenti, che dimostrano come l’esercito borbonico sia stato sconfitto grazie a una trama di complicità massoniche e di tradimenti di generali del Regno delle Due Sicilie, corrotti dall’oro britannico e dai servizi segreti sabaudi. Il vice Intendente di Garibaldi viene allora eliminato da una bomba fatta confezionare da Simonini, che provoca l’esplosione del brigantino su cui si era imbarcato. Oltre a Eco, molti altri scrittori si sono cimentati con quello che l’etnologo bagherese Nino Buttitta ha definito una sorta di “caso Mattei” ante litteram.
Sul “caso Nievo”, da ultimo, è tornato Lorenzo Del Boca, esponente di quel moderno revisionismo risorgimentale che risale agli anni Settanta del Novecento. Nel suo volume (“Risorgimento disonorato. Il lato oscuro dell’unità d’Italia”, Utet, 2016) Del Boca descrive Nievo come un pignolissimo e “onesto piantagrane”, che rese la vita impossibile ai suoi vertici. Sappiamo così che Giuseppe Garibaldi gli affidò la cassa dei Mille anzitutto perché lo considerava incapace di rubare. Virtù del resto necessaria per chi era chiamato ad amministrare ingenti somme di denaro, versate in particolare dalle logge massoniche scozzesi. Alle donazioni d’oltremanica si aggiungevano, inoltre, i cospicui contributi per acquistare armi e munizioni raccolti dai giornali, dai circoli liberali, dalle associazioni tricolore, da privati cittadini. Il denaro veniva quindi spedito a Genova, dove Agostino Bertani si preoccupava di farlo recapitare a Nievo. Questi, a sua volta, doveva provvedere alla sussistenza dei volontari (divise, rancio, stipendi), al funzionamento dei servizi carcerari e ospedalieri, e perfino alla retribuzione delle spie e degli informatori.
Il vice Intendente -questa era la sua carica- registrava scrupolosamente su un quadernetto a quadretti ogni voce in uscita. Non accettava però di essere preso in giro. Nell’esuberante quanto indisciplinato esercito garibaldino, chiunque era autorizzato a lasciare un reparto per aggregarsi a un altro. Gli ufficiali denunciavano immediatamente i nuovi arrivi, ma avevano il vizio di non segnalare le partenze, in modo che i propri contingenti risultassero più numerosi di quelli effettivi. Ciò consentiva di riscuotere stipendi non dovuti, che poi venivano spartiti tra la truppa in base all’anzianità e al grado. Nievo si accorge del trucco e si impunta. Dovendo liquidare il soldo al battaglione del maggiore Colina, pretende di fare l’appello nominativo. Nonostante le vibranti proteste, si mette a contare nel cortile della caserma uno ad uno i soldati e scopre che erano un centinaio in meno di quelli dichiarati dal comandante. Il maggiore Colina viene arrestato, ma i ministri della Guerra Giuseppe Paternò di Spedalotto (prima) e Nicola Fabrizi (poi) non apprezzarono il suo rigore. La campagna di stampa sugli sprechi e sugli episodi di malaffare della dittatura garibaldina nel frattempo si era fatta martellante. Le autorità regie gli spiegano che non era più possibile ignorare le critiche sempre più severe al suo operato, e gli ingiungono di recarsi a Torino con tutte le carte che certificavano le spese da lui autorizzate.
Il 25 febbraio, quando sale a bordo dell’ “Ercole” attraccato al molo dell’Arsenale di Palermo, Nievo ha un pallore spettrale sul volto. Confessa di non sentirsi bene, ma è deciso a partire. Il mare non era tranquillo e le previsioni annunciavano burrasca, ma era un cattivo tempo a cui i marinai erano abituati. Il giorno dopo i dodici passeggeri e gli oltre sessanta membri dell’equipaggio si erano dissolti nel nulla. Quel giorno Nievo era un giovane uomo di neanche trent’anni, “elegante, distaccato, viso morbido, dal carattere imprevedibile, ora caldo ora gelido. Freddo coi superiori, proteggeva i suoi subalterni come una gatta coi suoi piccoli […]. Romantico e razionale nell’azione […]. Coraggioso, temeva due cose, le malattie e il mare” (Stanislao Nievo). E il mare se lo sarebbe portato via. Complice un complotto? Può darsi. Basta crederci.