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4 novembre 1966. Il ricordo di una catastrofe e gli aiuti giunti da tutto il mondo

Di Cristina Acidini

L’immenso patrimonio culturale conservato a Firenze in musei, chiese, biblioteche, archivi, palazzi pubblici e dimore private ebbe a soffrire più volte nei secoli a causa delle ricorrenti esondazioni dell’Arno; e per venire in prossimità del nostro tempo e alla portata della nostra memoria individuale e collettiva, dimostrò la sua fragilità nell’alluvione del 4 novembre 1966. Il ripristino degli edifici si svolse con relativa rapidità, mentre si protrasse nei decenni, né può dirsi ultimato, il recupero di migliaia di manufatti mobili, compresi settori ingenti del patrimonio storico-artistico.

Aiuti in presenze attive e in denaro sarebbero giunti da tutto il mondo. Nelle ore della catastrofe e subito dopo, per mesi e anni. Giunsero aiuti da tutta Europa e dall’America; le offerte provenienti dal settore privato vennero convogliate presso il comitato del Fondo internazionale di Firenze. Alla tutela dei beni artistici colpiti provvidero le Gallerie fiorentine, sotto la guida del soprintendente Ugo Procacci, che affrontarono l’emergenza coordinando le attività dei restauratori locali, degli specialisti dell’Istituto centrale di restauro di Roma, dei ricercatori del Cnr e degli istituti universitari, dei volontari italiani e stranieri delle più diverse formazioni e provenienze internazionali. Presso il ministero fu istituita una Commissione restauri opere d’arte. Intanto, nei singoli luoghi si svolgeva una continua attività di salvataggio, in cantieri-laboratorio rapidamente organizzati a Palazzo Pitti, agli Uffizi, al Bargello, al museo archeologico, a Palazzo Davanzati. Quando Umberto Baldini, funzionario delle Gallerie, comunicò alla Commissione restauri opere d’arte il programma dei lavori ai dipinti ricoverati nella Limonaia del Giardino di Boboli, sottolineò l’unicità della situazione: “Non si tratta di opere che hanno bisogno di operazioni normali, ma si tratta di opere che hanno subito, rispondendo in vario modo, un danno eccezionale e che non ha dati sicuri di esperienza”.

Quell’esperienza mancante, che si venne costruendo, rimase patrimonio della città, nonché fondamento di un’avanzata cultura della conservazione e del restauro caratterizzante l’identità delle soprintendenze e soprattutto dell’odierno Opificio delle pietre dure, istituito nel 1975. Nell’alluvione andarono perduti o danneggiati centinaia di opere d’arte, migliaia di metri quadri di pitture murali, oggetti d’arredo, e manufatti cartacei. Fra i dipinti su tavola c’era il Crocifisso di Cimabue, divenuto simbolo della tragedia e del riscatto; fra i bronzi la Porta del Paradiso del Battistero di Lorenzo Ghiberti, fra le statue in marmo il Bacco di Michelangelo nel museo nazionale del Bargello, fra le sculture lignee la Maddalena di Donatello, anch’essa nel battistero.

L’attività di restauro proseguì nei decenni successivi, impegnando committenti e operatori tanto nel pubblico quanto nel privato. Un disastro di proporzioni bibliche quale era stata l’alluvione di Firenze non poteva che richiedere tempi biblici di recupero. Tuttavia, ancora nel quarantennale mancavano all’appello delle opere. L’Opificio restituì a Santa Croce ben otto dipinti su tavola, ma non c’era l’Ultima cena di Giorgio Vasari, rimasto nello stato in cui si trovava all’indomani del ritiro delle acque dal refettorio del museo di Santa Croce. Fu la Protezione civile, nel 2006, a rendere disponibile la cifra che consentì l’avvio dell’impegnativo progetto di recupero, finanziando inoltre il restauro del David di Donatello. Dunque nel 2016, per il cinquantenario, Vasari tornerà a Santa Croce.

Nel corso degli anni gli istituti periferici del ministero, oggi dei Beni e delle attività culturali e del turismo, hanno messo a punto misure di prevenzione attive e passive, con un protocollo d’intesa redatto nel 2010 con le autorità aventi compiti specifici. Ogni museo e luogo culturale nell’area a rischio è dotato o si sta dotando di adeguati piani di emergenza.

Per quanto riguarda il patrimonio librario furono danneggiati l’archivio di Stato, la biblioteca della facoltà di Lettere dell’Università di Firenze, il gabinetto Vieusseux, il Tempio ebraico, altre biblioteche e archivi, ma è la Biblioteca nazionale centrale che, con la basilica di Santa Croce, assurse a simbolo del danno ai libri e insieme del volontariato e degli angeli del fango. L’alluvione del 4 novembre 1966, travolse circa 1 milione e 200mila volumi della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, che possedeva un patrimonio pari a circa 3 milioni di unità bibliografiche. Dei fondi antichi a stampa, furono danneggiati, parlando per grossi numeri, 52mila magliabechiani, 10mila palatini e oltre 42mila miscellanee. Nei giorni e nelle settimane che seguirono l’alluvione, 3mila tonnellate di opere infangate, con oltre 550 viaggi di grossi autocarri, furono trasportate verso luoghi sicuri per essere asciugate ed evitare, per quanto possibile, lo sviluppo di microrganismi che ne avrebbero decretato la perdita sicura. I tecnici accorsi dal British museum costituirono il primo nucleo del Laboratorio di restauro dividendolo in reparti, secondo un sistema di stampo industriale che permetteva di affrontare, in modo rapido e produttivo, l’enorme quantità di materiale danneggiato. Nonostante la pressione eccezionale di un’emergenza senza precedenti e del tutto imprevista, la Biblioteca nazionale, guidata da un direttore straordinario, Emanuele Casamassima, nulla concesse all’improvvisazione e pianificò il recupero dei libri all’insegna della rapidità dell’intervento, della funzionalità delle strutture e della coerenza storica nella progettazione delle nuove legature. In tal modo, l’intervento della Biblioteca segnò, per il restauro del libro, una sorta di spartiacque fra un restauro “di bottega”, così come era stato inteso fino a quel momento, e un intervento improntato a principi moderni.

Cristina Acidini (Presidente dell’Accademia delle arti del disegno di Firenze)

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