Basta questa rapida carrellata per rendersi contro della varietà che contraddistingue l’offerta. Ma al fondo non si può non notare come accanto al nuovo il vecchio non scompaia. Cambia il modello di business, non il contenuto della prestazione; cambiano le modalità di erogazione, non le esigenze dei consumatori (anche se bisognerà studiare quanto e come in realtà il nuovo modello contribuisca a creare nuovi bisogni).
La vera differenza , semmai, risiede nella dimensione di mercato, assai più vasta e potenzialmente globale, in cui vengono sospinti attraverso la rete servizi e mestieri che finora sono stati confinati in un bacino circoscritto. Il genio “disruptive” che molti ravvisano nell’economia on demand insomma esiste, si peccherebbe però di superficialità limitandosi a questa constatazione senza sottolineare le opportunità di lavoro e crescita che essa offre.
Sarebbe anche sbagliato non sottolinearne, accanto al potenziale di disgregazione, alcuni spunti comunitari, la sua affinità, ad esempio, col principio mutualistico che sta alla base dell’esperienza cooperativa o con il modello dell’impresa sociale.
Prima di farsi risucchiare dal dibattito tra entusiasti e catastrofisti, sarà bene comunque tenere a mente le proporzioni economiche del fenomeno. Uno studio elaborato da Price Waterhouse Coopers calcola che in Europa il giro d’affari legato alla sharing economy ammonterà a 570 miliardi di euro entro il 2025. E la Commissione Europea, nelle linee – guida emanate lo scorso giugno, valuta in 28 miliardi il reddito lordo generato nel 2015 dal settore.
Quanto agli Stati Uniti, un altro studio, stavolta di Bloomberg, analizza in profondità le ricadute dell’economia della condivisione sulle abitudini dei consumatori e più in generale sull’economia americana.
E l’Italia? Un censimento vero e proprio non c’è, ma in mancanza di dati statistici soccorre una ricerca dell’Università di Pavia commissionata da Phd Italia, la prima del genere, che stima in 3,5 miliardi il giro d’affari della sharing economy nel 2015. Lo scenario più prudente prevede una crescita a 8,8 miliardi nel 2020 e a 14,1 nel 2015 , mentre quello più ottimistico calcola a 10,5 e a 25,1 miliardi il valore alle stesse scadenze. I ricercatori coordinati dal professor Luciano Canova hanno preso in considerazione anche il rischio bolla: in questo caso ad un picco di 14,1 miliardi nel 2019 potrebbe seguire un brusco ridimensionamento (4 miliardi nel 2025).
Su queste coordinate incerte farà forse un po’ di luce Sharitaly, evento giunto alla quarta edizione che si tiene a Milano il 15 e 16 novembre.
Secondo di tre approfondimenti a cura di Augusto Bisegna e Carlo D’Onofrio. Qui si può leggere il primo