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Ecco perché la middle class americana ha scelto Donald Trump

Il voto di protesta della classe media americani è il driver dei risultati elettorali americani, che indicano un consenso nei confronti di Donald Trump molto più ampio di quanto era stato previsto dai sondaggi. Si conferma invece un dato di fondo, tanto ben presente alla stessa Federal Reserve quanto trascurato da coloro che guardano solo all’andamento degli indici di Borsa: la polarizzazione del lavoro – un dato su cui la governatrice Janet Yellen ha insistito più volte – è una tendenza assai più preoccupante dell’obiettivo tecnico, già raggiunto da tempo, di ridurre la disoccupazione americana al 5%. Se all’inizio del suo primo mandato, nel gennaio del 2009, Barack Obama aveva dichiarato che la crisi di Wall Street rappresentava una grande occasione di cambiamento, si deve concludere che questo obiettivo non è stato raggiunto. L’America, all’improvviso, si scoprì povera.

Anche oggi lo è. Sin dalla metà degli anni novanta, la classe media americana aveva azzerato il tasso di risparmio, mentre la crescita dei consumi e del benessere veniva trainata esclusivamente dalle spese finanziate con le carte di credito e dai mutui, spesso sub-prime. Fu il progressivo rialzo dei tassi, deciso per frenare la bolla immobiliare. Dopo la crisi, c’è stata la ripresa, con una veloce riduzione del debito delle famiglie ed un consistente aumento del loro risparmio precauzionale, ma in un contesto non più drogato né dal mercato immobiliare, né dal credito al consumo. Le famiglie americane hanno dovuto contare solo sugli stipendi, e sui salari. Ma anche questi sono stati fortemente ridimensionati, insieme ai benefici assistenziali e previdenziali di cui beneficiavano in passato: i sindacati americani , nei pochi settori dove ancora hanno resistito, si sono dovuti sedere al tavolo delle trattative, ed accettare consistenti tagli in cambio del mantenimento dei posti di lavoro e di nuove assunzioni.

Senza la droga del debito, con stipendi, salari e benefit ridimensionati, con rapporti di lavoro precari e sempre più spesso a tempo parziale, il malumore non poteva che crescere. A ciò si aggiunga l’aumento della tassazione, volta a finanziare la crescente spesa assistenziale. Il lavoro stesso si è trasformato, con conseguenze vistose soprattutto in una società eccezionalmente dinamica come quella americana: se, per un verso – quello dei blue collar – viene spostato verso i Paesi dove costa meno, dall’altro – quello dei white collar – diviene sempre più evanescente, assorbito dalla cristallizzazione nei sistemi informatici della capacità di elaborazione, della attività decisionale, della conoscenza della realtà e della memoria. La middle class è stata l’ossatura sociale su cui si fondava la seconda rivoluzione industriale: incorporava conoscenze, capacità, funzioni produttive. Dopo la crisi del 2008 – caratterizzata dagli esiti della globalizzazione e della informatizzazione nei servizi – la classe media si è dapprima impoverita e precarizzata, ed ora si ribella.

C’è un filo rosso che lega, uno dopo l’altro, questa scia di risultati elettorali imprevedibili: nelle elezioni al Parlamento europeo, le tradizionali famiglie politiche sono uscite profondamente ridimensionate; in Grecia, Spagna, Italia, ci sono movimenti politici e partiti nuovi, che raccolgono ed assorbono disagio e protesta; in Francia, la destra lepenista non è mai stata tanto diffusa; in Gran Bretagna il movimento indipendentista è riuscito nell’incredibile risultato di determinare il successo referendario con la Brexit.

La riconquista della compettività delle imprese, l’aumento della produttività, il mantenimento di un consistente profitto, sono stati ricercati mettendo sotto pressione il fattore lavoro. Ai positivi risultati macroeconomici raggiunti, corrispondono altrettante conseguenze negative sul piano della stabilità politica. La classe media, in tutto l’Occidente, si sente impoverita, ed accorda il suo consenso a chiunque gli prospetti una via di uscita diversa. La vera crisi, oggi, è quella dello storytelling tradizionale, dei tanti media che si fanno megafono dell’establishment economico, finanziario, culturale, politico, che fa del mercatismo la sola religione possibile.

Dalla crisi del 1929 si uscì con la riduzione degli orari di lavoro, con un rafforzamento delle tutele sociali attraverso il welfare pubblico, con un forte presidio sui sistemi bancari. Fu l’America di Roosevelt a fare da battistrada. Il sistema democratico, il mondo della finanza e l’apparato industriale si consolidarono. Dove invece vennero adottate politiche liberiste, come nella Germania del Cancelliere Bruning, si determinò un aumento impressionante della disoccupazione, che spalancò la strada al nazismo. Il ritiro disordinato dei capitali americani, che fino ad allora avevano garantito la ripresa tedesca, guidata dai socialdemocratici, aveva causato una catastrofe. Il risentimento tedesco divenne indomabile.

Dalla crisi del 2008 si cerca di uscire con più mercato, senza eliminare nessuno degli squilibri che la determinano: il capitalismo si è trasformato in mercantilismo; la crescita è trainata dall’export, che è competitivo solo per via della riduzione del costo del lavoro. La classe media viene schiacciata, la disoccupazione aumenta, il consenso politico verso i partiti tradizionali crolla. Anche negli Usa, dove il deficit pubblico, l’assistenzialismo e la politica monetaria hanno cercato di fare da sponda, inutilmente.


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