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Matteo Renzi è stato sconfitto prima di tutto sull’economia. L’analisi di Giulio Tremonti

Di Giulio Tremonti
Giulio Tremonti

Per capire gli effetti della vittoria del No al referendum – e, quindi, per traguardare il futuro – è essenziale cercare di capire cosa è successo e quali sono le cause degli effetti. Anche perché dei fatti – come si dice in filosofia politica – fanno parte anche le conseguenze. Se è stato – e lo è stato un – voto politico, è perché le cause sono state politiche.

Cos’è accaduto? Che il governo in questi anni non ha fatto ciò che avrebbe dovuto, ma ha fatto, al contrario, quello che non doveva: seguendo un disegno neo-consolare, ha tentato di creare un monoblocco politico attraverso la legge elettorale e la riforma costituzionale. Questo monoblocco ha, però, finito con il dissolversi prima ancora della nascita per via dei risultati assolutamente insufficienti prodotti da questo esecutivo.

Nel tempo presente – e soprattutto nelle crisi – è molto difficile che i governi facciano bene. Se si impegnano, però, possono riuscire a fare molto male. La “cifra” politica essenziale della lunga stagione di Matteo Renzi – ed è chiaro oggi dopo un voto che chiude un ciclo politico durato tre anni –  è stata l’identificazione del bene con l’azione del governo da solo.

Non il governo come parte di un meccanismo politico complesso che include tanti altri soggetti: i produttori, i lavoratori, i consumatori. I cittadini. Ma il governo come dotato di un autonomo, assoluto e magico potere.

Non è necessario prendere in esame le slides: è sufficiente notare come per successive e reiterate dichiarazioni il presidente del Consiglio si sia incorporato nel Pil. Quest’ultimo – nonostante il nome che avrebbe dovuto indicare il contrario – non è stato interpretato come un processo che include naturalmente tanti altri fattori e soggetti, somma complessiva e collettiva della loro azione. Al contrario si è pensato che dipendesse da un solo soggetto il cui agire veniva presentato come salvifico.

Non è stato così però, forse anche oltre le colpe del governo stesso che pure se l’è intestate.

Il prodotto interno lordo non ha tenuto il ritmo della pur modesta ripresa europea, nonostante i capitali a costo zero e il basso prezzo delle materie prime.

Nei numeri della popolazione emergono dati drammatici a proposito di natalità e mortalità.

La povertà assoluta è cresciuta. I numeri dell’occupazione sono più statistici che reali: basta considerarne il costo messo a carico del bilancio pubblico e la diffusione abnorme dei voucher.

La pressione fiscale è salita perché ad alcune riduzioni hanno fatto fronte corrispondenti incrementi fiscali.

Il debito pubblico è aumentato, mentre il deficit è stato calcolato sulla base di un eccessivo numero di finte coperture, come se si trattasse di un partita di giro o di raggiro.

Il risparmio è stato messo in crisi da interventi sviluppati fuori dal principio della Costituzione repubblicana che lo tutela.

Nel complesso dei suoi interventi sul risparmio, la cosiddetta classe dirigente non dovrebbe essere neppure accusata per aver commesso il fatto, ma dovrebbe essere assolta per non averlo compreso. E questo è forse l’aspetto in assoluto più grave e preoccupante.

Nell’insieme le condizioni reali e, soprattutto, le prospettive future del Paese si sono deteriorate. Se il voto espresso con il referendum è stato di natura politica, è in tutto quanto sopra che se ne devono rintracciare le cause.


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