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Perché la Cina teme l’imprevedibilità di Trump. Parla Fardella (Peking University)

Trump, Dollaro, Usa, Obamacare, G20

Dal riconoscimento dello status di economia di mercato con tanto di ricorso all’Organizzazione Mondiale per il Commercio contro Usa e Ue che “temporeggiano”, fino al conflitto con il neo presidente americano definito “un bambino ignorante” sulla vicenda di Taiwan: la Cina del presidente Xi è sempre più nell’occhio de ciclone e per capirne mosse e strategie, Formiche.net ha intervistato Enrico Fardella, professore alla Peking University e global fellow del Woodrow Wilson center di Washington DC, ma soprattutto un italiano che ha scommesso sulla Cina (il primo occidentale ad ottenere il post doc presso l’Università di Pechino – Beida-) dove vive da oltre dieci anni e che conosce molto bene.

Professor Fardella, la Cina è un economia di mercato? Merita questo riconoscimento?

Nonostante gli enormi passi in avanti compiuti in questi anni dalla Cina nella trasformazione della sua economia, diversi economisti europei ritengono che essa non sia ancora pronta per essere definita un’economia di mercato e ciò per due ragioni principali: 1) il permanere di un alto livello di influenza del governo sull’allocazione delle risorse e le decisioni delle imprese: il sistema bancario in Cina ad esempio è ancora in gran parte nelle mani dello Stato e favorisce l’afflusso di risorse alle grandi aziende di Stato a condizioni vantaggiose con conseguenze distorsive sia sul mercato interno che per la competizione a livello globale di queste imprese; 2) un sistema finanziario ancora non del tutto trasparente e indipendente dallo Stato.

Come spiega il suo ricorso al Wto contro Ue e Usa: una prova di forza o debolezza?

Nessuna delle due. Penso sia una mossa legittima e abbastanza scontata. Se si vuol parlare di debolezza cinese si dovrebbe guardare più che altro alla cornice politica al cui interno si colloca il tema del MES. Il risultato delle elezioni americane e l’influenza sull’ascesa delle cosiddette forze “populiste” in Europa: un vento ostile alla “competizione sleale” cinese potrebbe iniziare a soffiare sulle campagne elettorali europee per le presidenziali francesi e le elezioni regionali e parlamentari in Germania tra la primavera e l’autunno del prossimo anno. La Cina è sempre un perfetto capro espiatorio per le forze populiste e il MES potrebbe diventare una piattaforma strumentale su cui organizzare consenso all’interno e rafforzare il fronte occidentale e le relazioni atlantiche all’esterno.

Sembra che i rapporti con gli Stati Uniti potessero essere distesi, invece neanche insediato il conflitto con Trump appare evidente…

I rapporti con gli Stati Uniti non possono essere distesi perché l’ascesa cinese mette a repentaglio l’egemonia americana e gli Stati Uniti, nonostante le chiacchiere sul ritorno dell’isolazionismo, non sembrano né volere né potere cedere la loro supremazia globale. Non possono perché la forza degli Stati Uniti sta nell’essere centro di un sistema globale da loro disegnato, costruito e difeso. Ne vogliono perché se retrocedessero perderebbero sicurezza, ricchezza e influenza. Basta dare un’occhiata al sistema politico ed economico cinese, alle sue ambizioni e ai suoi orizzonti per comprendere che la Cina rappresenta una sfida di portata strategica globale per Washington. Questa analisi è un fenomeno che preesiste a quello di Trump. In quest’ottica Trump può essere visto come una reazione, abbastanza prevedibile, ad un processo storico più ampio indirizzato alla ricerca di un punto di equilibrio tra le parabole egemoniche di due grandi paesi.

Perché questo attacco violento al neo presidente americano definito “un bambino ignorante”?

Ognuno ha i suoi punti sensibili e la Cina ne ha tradizionalmente tre: Taiwan, Tibet e Xinjiang. Sono le tre province che ancora oggi con il loro irredentismo sollevano complessi ‘ottocenteschi’ a Pechino. Trump ha inaugurato la sua China Policy ficcando pesantemente il dito in uno di questi nervi scoperti: con una telefonata al premier taiwanese e la minaccia di rimettere in piedi la politica delle “due Cine” Trump sembra intenzionato a rimettere in discussione il cardine su cui sono state costruite le relazioni diplomatiche con Pechino negli ultimi 40 anni. L’ignoranza peraltro è un concetto relativo: i bambini ignorano tante cose ma possono sorprenderti come nessun altro. I cinesi lo sanno bene: quello che potrebbe turbarli è proprio l’imprevedibilità del Presidente. Ciò che non si può prevedere complica i calcoli e indebolisce le scelte tattiche. Penso sia più utile analizzare il risentimento cinese in questa chiave.

Quindi Donald Trump batte dove il dente della Cina duole?

Come ho detto si tratta di una manovra ben orchestrata. La crescita dell’influenza cinese nel mondo e il suo “nazionalismo tecnologico”-  come viene definita la decisa politica del governo cinese a supporto delle sue aziende di stato per l’acquisizione e lo sviluppo di tecnologie innovative (si veda il progetto Made in China 2025 di recente lanciato dal Ministero cinese per l’industria e l’innovazione tecnologica) – pongono una sfida competitiva di primo piano per i paesi industrializzati, Stati Uniti in primis. Trump collega infatti un tema politico – il tema della “One China Policy” – ad un tema economico – la concorrenza sleale di Pechino sul piano commerciale. La difesa di Taiwan per gli Stati Uniti non è mai stato un vero interesse strategico per Washington. Anzi è sempre stato un tema strumentale per aumentare la loro influenza sulla Cina continentale.  Negli anni ’70 lo utilizzarono per smarcarsi dal Vietnam e spingere Pechino in un’alleanza contro Mosca, il nemico strategico di allora. Oggi invece la nuova amministrazione Trump potrebbe cercare di sfruttare una finestra temporale utile, descritta dai mesi delicati che separano la leadership cinese dal prossimo congresso del partito nell’autunno del 2017, e tornare a giocare la carta di Taiwan per ottenere qualcosa in cambio non solo in chiave commerciale ma anche su dossier di importanza cruciale per Trump quali la Corea del Nord e soprattutto l’Iran.

Eppure anche Obama non era stato tenero con Pechino con ben 12 cause contro la Cina accusata di dumping sull’acciaio o con i sussidi all’agricoltura…

E questo continuerà anche con Trump sicuramente. Basta vedere come si esprimono su questo punto i componenti della sua squadra per farsi un’idea. Ma la differenza è che l’amministrazione Obama ha lanciato un pivot in Asia in un momento in cui il Medio Oriente esplodeva e i rapporti con la Russia tornavano ai tempi di Brezhnev. Per quanto forti fossero le posizioni contro Pechino all’interno dell’amministrazione, il quadro strategico era troppo fragile e il pivot ha finito per essere affidato per lo più al TPP. Il fatto che Trump abbia già deciso di eliminarlo chiarisce che la rotta della sua amministrazione in Asia sarà ben diversa. Se si combina questo con l’evidente charm offensive verso la Russia di Putin si potrebbe pensare, come ormai molti suggeriscono, ad una manovra inversa rispetto a quella compiuta da Kissinger e Nixon negli anni ’70: un intesa con la Russia che induca Pechino, tramite un pivot più forte in Asia, a seguire una strada più congeniale agli interessi americani.

Come finirà secondo lei? C’è da temere un conflitto permanente? Una guerra commerciale?

Il conflitto è sempre permanente. La differenza rispetto al passato è che oggi non ha più confini e ha cambiato forma, è globale, ibrido e iper-tecnologico. Questo rende i rapporti tra Cina e Stati Uniti molto più complessi del passato. Le guerre commerciali sono ovviamente possibili ma sono anche molto costose per tutti. Anch’esse però sono spesso strumenti usati per il raggiungimento di obiettivi più significativi. Sin dalla fine degli anni ’70 di fatto i processi di riforma e apertura inaugurati dalla leadership denghista sono stati strutturalmente sintonici con l’egemonia americana. In un certo senso la capacità del Partito Comunista cinese di garantire sicurezza, sviluppo e apertura al mercato internazionale (e alle sue logiche) per un quinto della popolazione mondiale nel cuore dell’Asia è stato uno degli elementi strategici più importanti per il mantenimento dell’egemonia americana in Asia e per l’evoluzione pacifica e sinergica delle relazioni sino-americane dagli anni 70 a oggi (si ricordi che gli unici conflitti caldi della guerra fredda erano stati combattuti in Asia proprio tra cinesi e americani negli anni 50 e 60).

Ma qualcosa starà pur cambiando?

La riforma e “l’apertura” cinesi non hanno realmente “aperto” la Cina all’Occidente, come forse sperava qualcuno,  o favorito processi di liberalizzazione, come auspicato da altri, ma sono state orchestrate in modo acuto e hanno trasformato la Cina e il suo enorme mercato interno in un sistema ostico per le corporation straniere dove grandi società di stato tramite poderose economie di scala e aiuti governativi acquistano slancio per la conquista dei mercati globali. Agli occhi di Washington dunque la concorrenza cinese non è preoccupante per gli strumenti che usa – più o meno sleali di quelli usati da altri – ma per la sfida egemonica che essa evoca. Con questa sfida dovrà misurarsi l’amministrazione Trump. A quanto pare dai primi segnali si può rilevare una certa predisposizione dell’entourage del nuovo presidente a prendere di petto questa sfida strategica.


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