Contrordine compagni: è meglio abbandonare la Cina. Sarà per via del nuovo corso del presidente Donald Trump che osteggia in modo virulento chi investe all’estero e non nella grande patria americana, basta guardare la campagna contro General Motors, Ford e Toyota, ma McDonald’s ha deciso di fare un passo indietro nell’ex Celeste Impero dopo che, neanche un anno fa, l’amministratore delegato Steve Easterbrook annunciava in un’intervista al Wall Street Journal l’apertura di 2mila ristoranti con l’obiettivo di fare di Pechino il secondo paese dopo gli Usa per consumo di hamburger.
La catena di fast food a stelle e strisce ha appena ceduto – per un valore di circa 2 miliardi di dollari – l’80% del controllo diretto del suo business nell’ex Impero di mezzo ad una newco, una nuova società costituita dal gruppo di investimento cinese di proprietà statale Citic e dal fondo di private equity Carlyle Group. La nuova società, spiega l’agenzia Bloomberg che riporta il comunicato ufficiale dell’operazione, ha un valore di 2 miliardi di dollari con Citic che detiene il 52 per cento della partecipazione di controllo, mentre Carlyle e McDonald’s avranno rispettivamente il 28 per cento e il 20 per cento delle azioni.
Questa operazione non è che l’ultima frontiera della globalizzazione, una strada peraltro già stata seguita da altri brand come Coca-Cola e Kentucky Fried Chicken che per penetrare al meglio nel mercato cinese hanno cercato partner locali con una migliore conoscenza del territorio, cedendo parte del business ma con l’obiettivo di non perdere un mercato che ha almeno 300 milioni di consumatori ricchi.
Un ridimensionamento comunque clamoroso spiegabile sia dal punto di vista economico che culturale. McDonald’s nonostante i buoni propositi ha infatti sofferto alcuni problemi sul mercato cinese negli ultimi anni. E’ stato colpito da uno scandalo alimentare nel 2014 per la carne di scarto utilizzata per confezionare i propri prodotti che ne ha scalfito di molto l’immagine. Uno scandalo che ha avuto una prima conclusione lo scorso ottobre quando il gruppo di Shanghai Husi, controllato dalla statunitense Osi, che riforniva di carne i fast food, è stato condannato al pagamento di una multa da 2,5 milioni di dollari.
Ma non basta. Anche il business legato agli hamburger in un Paese tradizionalmente conservatore e con un alimentazione poco grassa – è il riso la pietanza principale – non sembra aver affascinato più di tanto i cinesi se non quelli legati al turismo e che sono pur sempre una goccia nel mare rispetto alla popolazione asiatica.
Tutto questo senza dimenticare i conti finanziari del colosso americano che non sono di certo idilliaci. McDonald’s ha chiuso l’anno con utili pari a 1,09 miliardi di dollari, in calo da 1,2 miliardi dello stesso periodo del 2015. I profitti per azione sono stati pari a 1,25 dollari in ribasso di 1 centesimo e sotto le attese. Le vendite nei negozi aperti da almeno un anno a livello globale sono cresciute del 3,1%, però non abbastanza per soddisfare gli analisti che si aspettavano un incremento molto maggiore e anche il dato relativo al mercato statunitense (in rialzo dell’1,8%) è abbastanza deludente.
La verità è che McDonald’s sconta effettivamente un problema con i millennial: le statistiche come riportato dal Wall Street Journal dicono che, almeno in America, i ragazzi nati tra il 1980 e il 2000 vanno meno da McDonald’s dei loro predecessori. Hanno più scelte a disposizione, da Chipotle a catene che propongono costosi hamburger gourmet, e finora McDonald’s non è riuscita a trovare il modo per rinnovare il suo marchio.
Una ricerca d’immagine nuova che è raccontata anche dal cinema dove ha avuto successo (e tra poco sarà anche nelle sale italiane) il film The Founder che narra l’epopea del cinico imprenditore Ray Kroc, un bravo Michael Keaton, che altro non è che un venditore di frullatori elettrici per milkshake che nel 1954 intuì l’importanza di offrire un cibo veloce ai suoi concittadini aprendo il primo fast food a Des Plaines, nell’Illinois. Classico esempio dell’uomo che riesce a farsi da solo. Un po’ come Trump e il sogno americano ritornato fortemente in voga. Anche per questo, forse, la Cina c’entra poco con la nuova America che si inizia a tratteggiare The Donald.