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Siria e Libia, cosa ha fatto (e cosa non ha fatto) l’America

Quando si è invitati a qualche incontro pubblico per parlare di Siria il momento in cui si comincia a introdurre il ruolo americano nel conflitto è immancabilmente segnato da reazioni evidenti e spesso molto diverse tra loro. C’è la sarcastica alzata di sopracciglia, il sorrisetto sardonico, l’espressione cupa della speranza delusa, o il viso ostile e corrucciato di chi si appresta a sentir parlare dell’origine di ogni male del mondo. Eppure, a queste reazioni così variegate si oppone un giudizio piuttosto unanime sulla strategia (ma forse sarebbe opportuno usare il plurale “strategie”) dell’amministrazione Obama in Siria: fallimento.

Come si spiegano quindi reazioni così diverse rispetto a un giudizio tutto sommato condiviso? La risposta, come spesso accade, la si ottiene facilmente guardando le cose più da vicino. Nonostante finiscano tutte con lo stesso giudizio complessivo, le spiegazioni per cui la politica obamiana in Siria avrebbe fallito sono infatti tutte molto diverse, così come le stesse narrazioni del ruolo avuto dall’America dal 2011 a oggi. La spiegazione maggioritaria, che in Italia riguarda trasversalmente il mondo grillino, quello leghista, fino ad arrivare all’estrema destra e l’estrema sinistra unite in una insolita(?) alleanza, è quella che vede l’America come il regista di una ribellione fasulla, pagata coi soldi sauditi e combattuta da misteriosi mercenari estremisti prevalentemente non siriani fatti arrivare dall’estero e venduta dai media occidentali corrotti come una rivoluzione contro un dittatore cattivo. In questa narrazione l’America ha fallito perché il popolo siriano, compatto a sostegno del proprio presidente laico e liberale e affiancato dai fedeli alleati iraniani e russi (soprattutto russi), ha impedito alle forze esterne del male imperialista e jihadista di prevalere. È una narrazione che si fonda su una ibridazione ideologica molto interessante che meriterebbe una trattazione a parte. Da una parte ci sono i filtri di comprensione che un tempo alimentavano la visione dell’Occidente fuori dall’Europa e degli Stati Uniti ma che oggi, complice la crisi economica e soprattutto le disastrose imprese in Afghanistan e Iraq, sono diventati più o meno mainstream anche negli stessi paesi occidentali, soprattutto in Europa: l’Occidente come entità unitaria e neoimperialista guidata da interessi legati alla finanza globale e dallo sfruttamento neocoloniale di popolazioni e risorse naturali. Una visione che definirei “Occidentalista”, per riprendere un bel saggio di Avishai Margalit e Ian Buruma uscito oltre 10 anni fa e (a mio modesto parere) fondamentale e complementare al corrispettivo e ben più famoso “Orientalismo” di Edward Said. Dall’altra parte, sorprendentemente, si riscontra invece un accoglimento sostanzialmente acritico della dottrina Bush rispetto al rapporto tra Islam e laicità come filtro prioritario per leggere ogni cambiamento sociale in Medio Oriente: la lettura socioeconomica del conflitto in Siria che fin dall’inizio ha visto la rivolta accendersi soprattutto tra le fasce sociali rurali neglette e le élite urbane è stata totalmente offuscata a favore della lettura “islamismo contro laicità”, andando sostanzialmente a favore della autocrazia laica di Bashar Al-Assad come accadeva per altri dittatori come Mubarak o Ben Ali un tempo fortemente supportati dall’America a guida Neocon secondo la medesima logica. Questo genere di narrazione è solitamente sostenuta con rigore militaresco a scarsa capacità di autocritica nonostante le numerose contraddizioni. Un manicheismo diventato caratteristica sempre più comune delle prese di posizioni politiche nel dibattito italiano e purtroppo anche di molte altre democrazie occidentali come gli stessi Stati Uniti, come la campagna elettorale e l’elezione di Donald Trump hanno dimostrato.
Ma se certamente all’interno del dibattito americano questo manicheismo si esprime su altre questioni dirimenti come il rapporto con la Russia, quello con la Cina o il ruolo dei whistleblower, sulla Siria lo scontro di opinioni avviene in maniera meno manichea – e indubbiamente più civile – rispetto a quello che vediamo a casa nostra. A impersonare le due principali correnti del dibattito ci sono i due più importanti esperti di Siria del paese, Robert Ford, ex ambasciatore a Damasco e consigliere personale di Hillary Clinton quand’era segretaria di stato, e Joshua Landis, professore dell’Università dell’Oklahoma e fondatore si Syria Comment, probabilmente il sito di informazione sul conflitto siriano più noto al mondo. Analizzare le loro opinioni e la loro valutazione dell’operato di Obama può aiutare a farsi un’idea più obiettiva e meno ideologica dell’eredità di Obama rispetto alla Siria e, più in generale, del ruolo che l’America gioca nelle narrative e nelle ideologie prevalenti in Medio Oriente – e in quella parte del pubblico occidentale che il Medio Oriente lo osserva – ancor prima che nella realtà concreta dei conflitti e delle lotte politiche.

Per capire l’opinione di Robert Ford riguardo al ruolo americano in Siria è sufficiente leggere il documento firmato nel giugno 2016 da una cinquantina di diplomatici americani e di cui Ford era chiaramente l’ideologo principale. Il documento chiedeva all’amministrazione Obama di non limitarsi ai bombardamenti contro le postazioni dello Stato Islamico ma di ampliare la campagna militare anche contro le postazioni del regime di Assad, colpevole, secondo i firmatari, di alimentare la radicalizzazione della società siriana attraverso la violenza e l’intransigenza della sua dittatura. Pochi mesi prima avevo intervistato Ford per il Corriere della Sera. Al termine dell’intervista avevamo avuto una breve chiacchierata sulle prospettive future della politica americana in Siria e la sua opinione su quello che materialmente l’amministrazione avrebbe potuto e dovuto fare per risolvere il conflitto. Ford era sinceramente convinto che la radicalizzazione dell’opposizione fosse dovuta principalmente alla mancanza di volontà e capacità dell’Occidente di sostenere la parte “sana” e maggioritaria della rivolta, quella che aveva prima alimentato le proteste pacifiche contro il regime e che poi si era coagulata nell’Esercito Libero Siriano (Els) quando, per reagire alla violenta reazione di Assad, la rivolta si era progressivamente armata. Se gli Stati Uniti fossero riusciti a farsi sponsor principali dell’opposizione togliendone di fatto il controllo ai loro opinabili alleati turchi e del Golfo avrebbero potuto “reindirizzare” il sostegno verso le parti “giuste” dell’opposizione, unendola e trasformandola in un attore di cambiamento democratico. Ford lasciò trasparire che questa era anche più o meno l’opinione condivisa dalla Clinton fin dai tempi del suo mandato come Segretario di Stato e il documento uscito quasi un anno dopo era evidentemente indirizzato tanto alla presidenza Obama quanto alla futura presidenza Clinton, che in quel periodo tutti tranne Michael Moore ritenevano altamente probabile. Che la Clinton fosse d’accordo con questo approccio non era sorprendente. Esso in fondo rispecchia l’approccio adottato rispetto alla Libia in rivolta nel 2011, quando, secondo i retroscena più accreditati, era stata propria la Clinton a convincere un riluttante Obama ad appoggiare l’intervento Nato che avrebbe portato alla fine di Gheddafi pochi mesi più tardi.
A questo punto posso quasi percepire di nuovo il sopracciglio alzato e il sorrisino sardonico, gli stessi che intravedo ogni volta che in un incontro pubblico ricordo questo avvenimento. Concretizzazioni facciali di un giudizio molto diffuso e che si può tradurre più o meno nelle seguenti parole: “Certo, bel risultato ha avuto l’intervento Nato contro Gheddafi. Oggi la Libia è un caos mentre almeno prima c’era un dittatore che manteneva l’ordine. Meno male che in Siria la Nato ha evitato di intervenire”. Ora, per quanto non possa negare una certa logica a questo giudizio condiviso in modo pressoché bipartisan da stampa e commentatori, almeno in Italia, credo però corretto ricordare che sopravvivono alcune voci – tra queste osservatori come Gilbert Achcar, professore marxista della Soas (e non esattamente un hooligan della Nato) – secondo le quali ciò che poteva accadere se Gheddafi fosse rimasto al suo posto sarebbe stato un massacro perfino peggiore di ciò a cui abbiamo assistito in questi anni. La storia, ovviamente, non si fa coi “se”, ma forse è opportuno ricordarsi che i nostri giudizi su certe decisioni storiche dovrebbero – e non sono quasi mai – essere condizionati da ciò che sappiamo delle conseguenze di certe azioni quanto lo dovrebbero essere da plausibili proiezioni su ciò che avrebbe pootuto accadere se certe decisioni non fossero state prese. Il generale giudizio sull’intervento in Libia a mio modesto parere manca di questa seconda componente e soprattutto dell’ammissione che in gran parte delle situazioni le opzioni reali a disposizione sono una peggio dell’altra.

(Prima parte di un’analisi più ampia. La seconda parte uscirà il 22 gennaio)


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