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L’appello di Karima Moual alle donne musulmane: “Svelatevi”

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Qualche anno fa, era il 2009, Lorella Zanardo ne “Il corpo delle donne” indagava l’approccio dei media italiani alle figure femminili. Sulla graticola ci finirono i corpi discinti e disinibiti che trovarono la rappresentazione più eloquente nelle “veline”. Quasi un decennio più tardi la rappresentazione del corpo delle donne non ha smesso di essere un argomento dibattuto.

Solo pochi giorni fa alcune ragazze musulmane, invitate a partecipare a talk televisivi, hanno denunciato di aver subito pressioni affinché indossassero il velo in tv. La giornalista e scrittrice Karima Moual ha preso spunto dalla loro contestazione e, in un editoriale su La Stampa, ha puntato il dito contro una pratica che tende a rappresentare stereotipi e non a raccontare storie. “I temi legati all’Islam e ai musulmani non sono raccontati in maniera corretta in tv. Sul mio profilo Facebook ho scritto un lungo post, un vero e proprio manifesto, che invita le donne musulmane a “svelarsi” dalla rappresentazione imposta da alcuni media che riduce le loro individualità solo alla sfera religiosa”, dice a Formiche.net Karima Moual. “Il discorso peraltro non si limita alle donne. Certo l’operazione parte dalle ragazze ma si estende anche agli uomini. Viviamo in un periodo storico in cui è facile strumentalizzare il racconto delle comunità islamiche”.

Karima Moual ha anche fondato un gruppo su Facebook dal nome “Svelatevi”.”Al gruppo si sono iscritte tante persone, ragazze e ragazzi, ma anche persone adulte – racconta – E sta diventando uno strumento di dibattito interessante per le donne e gli uomini di prima o seconda immigrazione che hanno fatto dell’Italia il loro Paese”. Negli ultimi anni il racconto degli stranieri in Italia ha fatto registrare una virata sempre più aggressiva. Complice una crisi economica della quale non si intravvede la fine e il concomitante aumento dei contesti bellici che hanno causato l’aumento di popolazioni in fuga, cresce l’appeal di programmi tv che, più o meno consapevolmente, si offrono come megafono di paure irrazionali. “Ci sono guerre e povertà e c’è una Libia che non ha più un suo guardiano che, anche violando i diritti umani, poneva un freno all’emigrazione. Tutto cambia, c’è movimento di persone che scelgono di non morire e provano a cercare una via di fuga. Adesso anche il Marocco è diventato un Paese di immigrazione e non solo di emigrazione, così come altri Paesi del Nord Africa”, prosegue Moual. “Inoltre a livello europeo e italiano non c’è un programma a lungo termine per rispondere a questo fenomeno ma si affronta sempre in maniera emergenziale. Noi abbiamo firmato dei Trattati che dobbiamo rispettare. In Europa, ma anche negli Usa. e l’elezione di Trump sta li a dimostrarlo, soffia forte il vento del populismo e questo influenza il racconto dello straniero. Se qualche anno fa si riconosceva il razzismo e la xenofobia in alcune narrazioni mediatiche ora ci stiamo abituando a trasmissioni giornalistiche che soffiano sul fuoco dell’odio”.

LA ROTTURA DEGLI STEREOTIPI: “PORTO IL VELO, ADORO I QUEEN”

Un’alternativa alla narrazione bidimensionale delle donne islamiche in Italia la fornisce il docufilm “Io porto il velo, adoro i Queen”, della regista piemontese Luisa Porrino. “Il film nasce da una mia curiosità nei confronti delle donne italiane di religione musulmana”, ci dice la regista. “Ho voluto provare a parlarne in maniera diversa. Ho fatto un percorso nelle loro quotidianità”, ha proseguito. Il film adotta il titolo di un libro scritto da quella che poi è diventata una delle protagoniste del documentario stesso, Sumaya Abdel Qader, consigliera Pd a Milano. “Ho incontrato Sumaya dopo aver letto il suo libro. Il titolo mi ha molto colpita per l’ironia che c’è dietro “Adoro i Queen”, perché i musulmani adorano solo Allah. Senza considerare che il rock, come quello dei Queen, è considerato “haram”, ovvero peccato, da alcune frange della cultura musulmana”, aggiunge Luisa Porrino. “Il film è costruito su interviste, molto simili a flussi di coscienza, che faccio alle tre protagoniste. Le mie sono tre donne, Sumaya Abdel Quater, consigliera Pd Milano, Batul Hanif, medico psichiatra di Trento, e Takoua Ben Mohamed, autrice romana di fumetti e graphicnovel, che ci accolgono nella loro vita di tutti i giorni e che riprendo sempre in movimento”.

Lo stereotipo delle donne musulmane, fedeli devote e rispettose delle 5 preghiere giornaliere, viene infranto da questo documentario. “Ho provato ad andare oltre la rappresentazione favolistica delle donne musulmane. Conosco alcune ragazze invitate a prendere parte a trasmissioni nelle quali viene chiesto di interpretare il ruolo della “donna musulmana”. Ecco quelle ragazze si rifiutano di prestarsi a reiterare un cliché. Oppure altre volte vengono manipolate perché magari non dispongono degli strumenti culturali adatti a difendersi”, conclude la regista.

Il film ha avuto una buona accoglienza anche in ambienti femministi, tanto che ci sarà un’anteprima a febbraio alla Casa Internazionale delle Donne a Roma. Meno tenera è l’opinione di Karima Moual sul film. “Sono ritratte tre donne, tutte velate. Siamo sempre allo stesso punto. C’è una grandissima semplificazione che non giova né a chi vuole capire né a chi vuole raccontarsi”, critica Moual. “Le ragazze musulmane non sono tutte velate, c’è una grandissima varietà che va raccontata a partire dai simboli. Avrei preferito che fosse data voce anche a ragazze non velate, per meglio raccontare la complessità delle donne musulmane, ricostruendo un ritratto più completo”. La Moual lo aveva provato a fare nel documentario “Haram” (Peccato), nel quale, attraverso il racconto di tre ragazze musulmane che fanno scelte di vita completamente diverse l’una dall’altra, ha cercato di fotografare il pluralismo che c’è nel mondo musulmano.


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