Siamo arrivati al paradosso più assoluto, all’assurdo: il risparmio italiano va a finanziare i concorrenti delle nostre industrie. E non sono spiccioli, ma miliardi a centinaia. Mentre le riforme strutturali fatte in questi anni, dalla legge Fornero al Jobs Act, dalle decontribuzioni previdenziali per favorire le assunzioni a tempo indeterminato al taglio del cuneo fiscale sulle imprese, hanno cercato di migliorare la competitività internazionale dell’Italia, con un risultato eclatante in termini di raddoppio del saldo della bilancia dei pagamenti correnti, c’è una fuga di capitali all’estero che accelera costantemente. Riduce la capacità di finanziamento del nostro sistema produttivo e alimenta gli investimenti di chi compete con noi sui mercati internazionali.
I conti del sistema Italia verso l’estero vanno letti nella loro brutalità: l’attivo commerciale, frutto del dumping salariale e fiscale operato dai governi, per favorire la competitività internazionale, è passato da 27 a 46 miliardi di euro. La svalutazione ha contato poco, poiché risale al 2014. Anche la componente dei redditi primari è divenuta positiva, per cui i proventi da lavoro, dividendi e interessi dall’estero incassati dagli italiani hanno superato i pagamenti verso l’estero: siamo diventati un popolo di rentier, che si arricchisce finanziando le economia altrui. È proseguita la riduzione degli investimenti di portafoglio dall’estero, mentre ancor più velocemente sono aumentati quelli degli italiani all’estero: nel complesso, il saldo del conto finanziario mostra che gli investimenti netti all’estero sono aumentati di un importo (43 miliardi) analogo a quello del saldo attivo della bilancia dei pagamenti correnti (46 miliardi).
La posizione finanziaria netta dell’Italia verso l’estero è migliorata, passando dai -411 miliardi di euro del terzo trimestre 2015 ai -292 miliardi del terzo trimestre 2016. Le attività italiane all’estero sono aumentate di circa 100 miliardi mentre le passività verso l’estero sono diminuite di una ventina di miliardi. Tra la fine del 2015 e quella del terzo trimestre del 2016, il debito verso l’estero è aumentato da 2.072 a 2.141 miliardi di euro, ma solo per via della posizione della Banca d’Italia, che con il Qe è passata da 258 a 364 miliardi. Tutti gli altri settori, ad eccezione del debito pubblico verso l’estero rimasto stabile a circa 840 miliardi, hanno mostrato una contrazione: il settore bancario di 40 miliardi e il settore privato di 14 miliardi. Intanto, è continuata la stasi del credito, unita alla scarsa dinamicità degli investimenti fissi lordi: mentre erano diminuiti, anno su anno, del 6,6% nel 2013 e del 3% nel 2014, sono aumentati solo dell’1,3% nel 2015 e del 2% nel 2016. Stiamo consumando il capitale produttivo e, invece di accrescerlo, portiamo acqua alla concorrenza straniera: una vera follia.
Molte cause determinano lo spostamento all’estero degli investimenti finanziari degli italiani. Innanzitutto, i bassi tassi di interesse determinati dalla politica monetaria accomodante da parte della Bce, che influiscono sui rendimenti delle obbligazioni e sui depositi bancari. In secondo luogo, è stato percepito crescente il rischio delle obbligazioni bancarie, per via della normativa sulle risoluzioni bancarie, con il bail-in e il divieto di aiuti di Stato se non accompagnato da un burden-sharing a carico degli obbligazionisti. Ci sono state le severe disposizioni emanate dalla vigilanza bancaria in tema di requisiti di capitale, che incidono sull’ammontare del credito erogabile. La mancanza per le piccole e medie imprese di un mercato finanziario alternativo al credito per soddisfare il proprio fabbisogno sta portando il sistema produttivo all’anossia. I Fondi di investimento e le Società che gestiscono il risparmio sono invece tornate attraenti, per via della grande libertà di cui godono nell’investire.
C’è, infine, un dato strutturale: dopo la crisi, l’Italia non è più considerata un mercato di consumo, vista la stasi dei redditi, ma un Paese di origine, ricco di una materia prima insostituibile: la grande ricchezza finanziaria delle famiglie. Così, a mano a mano che il sistema bancario italiano è messo alle corde, dall’estero ci si muove per acquisire le entità che gestiscono il risparmio. Lo investono, come sta avvenendo, al di fuori dei nostri confini: non è fuga del risparmio, ma accaparramento dall’estero.
Anche i meccanismi del Qe aggiungono la beffa al danno. La Banca d’Italia compra titoli di Stato italiani in cambio di liquidità, ma spesso gli acquisti non vengono effettuati in Italia e i venditori non sono italiani. Se si opera sulla piazza di Francoforte, è lì che si effettua la transazione: la liquidità è fornita dalla Bundesbank, con l’iscrizione di un corrispondente debito nel sistema Target 2 a carico della Banca d’Italia. Sempre lì, i venditori dei titoli di Stato italiani reimpiegano la liquidità. In Italia non ne arriva affatto: queste le regole, queste le conseguenze.
Così come dopo la crisi del 1992 venne messo in vendita l’intero apparato industriale pubblico, sottolineandone la gestione inefficiente e poco trasparente, anche stavolta ci troviamo di fronte alla stessa favola: la gestione delle nostre banche è poco efficiente, frutto di magheggi e di insopportabile opacità.
I pochi gioielli industriali rimasti, e i colossi che gestiscono la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane sono ora le nuove prede. La difesa dell’italianità non è un ridicolo orpello retorico cui si aggrappano i reduci del tempo che fu. Se vogliamo uscire dalla crisi, nuova occupazione e redditi più elevati, servono investimenti produttivi. Le risorse per farlo ci sono, sono nostre, e aumentano un anno dopo l’altro con il saldo commerciale attivo. Vanno investite qui: questo è difendere l’italianità del risparmio.