Globalizzazione sotto torchio a Davos, tra radicalismo americano, “great deal” britannico e continuismo cinese. Tutto il dibattito si è snodato attorno a queste tre differenti visioni del futuro, declinate rispettivamente dal neo Presidente Donald Trump, che è stato indirettamente rappresentato da Anthony Scaramucci, suo stretto consigliere e veterano del meeting svizzero, dal Presidente cinese Xi Jinping che partecipava per la prima volta a questa assise, e dalla Premier britannica Theresa May alle prese con la Brexit.
Mentre dagli Usa e dalla Gran Bretagna, con la elezione di Donald Trump ed il referendum a favore della Brexit, sono partite bordate che squassano i rapporti consolidati tra ambito globale e nazionale, e tra politica e mercato, è spettato al Presidente cinese il ruolo di difensore della globalizzazione, trionfante per essere a capo della seconda economia del pianeta. Pur essendo uno studioso del marxismo, non solo non ha attribuito i gravi problemi attuali ad un vizio intrinseco del capitalismo, ma ha sottolineato che neppure la crisi finanziaria è stata un effetto inevitabile della globalizzazione: piuttosto, è il frutto di una eccessiva quota di profitto del capitale finanziario e del grave fallimento della regolazione. In una prospettiva storica, secondo Xi, la globalizzazione economica è derivata da un incremento della produttività sociale ed è il frutto naturale del progresso scientifico e tecnologico, e non qualcosa creato solo da alcuni individui o da alcuni Paesi. La globalizzazione economica ha comunque una doppia lama, come una spada: quando l’economia è soggetta a pressioni verso il basso, è difficile far sì che la torta sia più grande per tutti. Quando si fa addirittura più piccola, ciò danneggia le relazioni tra crescita e distribuzione, tra capitale e lavoro e tra efficienza ed equità, e tutti hanno accusato il colpo, sia i paesi sviluppati sia quelli in via di sviluppo. Niente al mondo è perfetto, ha affermato Xi, neppure la globalizzazione, ma il fatto che abbia difetti non giustifica il suo abbandono: ha creato nuovi problemi, ma occorre trovare rimedi, protezioni contro gli impatti negativi, diffondendo i suoi benefici a tutti i paesi.
Il Presidente cinese ha difeso la globalizzazione, fenomeno storico non reversibile, senza mai affrontare il nodo politico dei rapporti tra il Nord ed il Sud del mondo, né rivendicare la necessità storica di un riequilibrio a favore del Sud, che è impossibile in un sistema a somma zero. Fu assai più chiaro e netto, dal punto di vista ideologico e politico, il Presidente Hu Jintao in visita a Washington nel gennaio 2011: il Sud deve crescere più del Nord. Ancora oggi, lo ha ricordato Xi nel suo intervento, l’80% della crescita mondiale deriva dai Paesi in via di sviluppo. In termini marxisti, andrebbe riconosciuto che la crescita dell’economia cinese e soprattutto il suo arricchimento non sono stati realizzati mediante lo sfruttamento capitalistico del lavoro dei contadini e degli operai, ma usando in modo mercantilistico il differenziale salariale e normativo con l’Occidente. La Cina ha vinto la sfida della globalizzazione e non ha intenzione di farsi cambiare le regole: è cresciuta a spese dell’Occidente che ha cercato di reagire abbassando i costi salariali e fiscali delle imprese, fino alla esasperazione sociale ed al collasso dei bilanci pubblici.
È dunque sullo squilibrio commerciale tra la Cina e gli Usa che c’è lo scontro con la impostazione trumpiana, espressa da Scaramucci: la Cina e gli Usa devono arrivare ad una posizione di “simmetria”. Questa è la parola magica che riassume la soluzione dello squilibrio commerciale americano, enorme. Come si giungerebbe alla simmetria, Scaramucci non l’ha chiarito. Se in futuro la crescita della Cina deriverà dal mercato interno, la trasformazione non sarà indolore: occorre dunque difendere questo modello di globalizzazione, mentre si procede agli aggiustamenti. Nel frattempo, lo yuan continua ad essere sotto pressione per la incessante fuoriuscita di capitali: anche all’interno della Cina c’è chi vuole mettere al sicuro i guadagni, piuttosto che impegnarsi sul nuovo modello di sviluppo.
La strategia di Theresa May, sicuramente rassicurata dall’endorsement ricevuto da Donald Trump sulla Brexit, è assai ambiziosa: ha presentato una sorta di Manifesto, che riguarda sia le relazioni verso il resto del mondo, sia e quelle tra Stato e mercato. La Brexit è una riappropriazione del destino nazionale e della sovranità del Parlamento, che non significa rinchiudersi: la cultura britannica è tradizionalmente aperta alle relazioni internazionali, che sono radicate, vitali e contribuiscono alla prosperità del suo Paese. La prospettiva è dunque quella di una Global Britain. La premier britannica ha quindi rimesso in discussione il rapporto tra Stato e mercato: il primo non può limitarsi a fare un passo indietro, a togliersi di mezzo, perché ci pensa il mercato ed i problemi si risolvono da soli. Il mondo del business deve cambiare, dimostrare una nuova leadership: in un mondo globalizzato tutti giocano con le medesime regole ed i benefici derivanti dal successo economico sono messi a disposizione di tutti i cittadini. Solo così, secondo Theresa May, si può mantenere il consenso della popolazione verso la economia globalizzata ed il business continuare ad operarvi. Riecheggiano, nelle parole della May, ambizioni d’altri tempi: occorre un “Great deal” in Gran Bretagna per arrivare a standard più elevati nella corporate governance, e fare in modo che diventi il miglior posto al mondo dove investire. Se finora la strategia competitiva è stata basata sul dumping salariale e fiscale, riducendo i costi per le imprese, ora le ambizioni sono altre: non solo le imprese devono pagare la loro giusta quota di tasse, ma devono riconoscere obblighi e doveri nei confronti dei dipendenti e della intera filiera di cui sono parte e commerciare nella maniera giusta. Devono investire davvero, e divenire parte, delle comunità e delle nazioni in cui operano, assumendosi le responsabilità conseguenti, in modo che i dirigenti paghino e siano chiamati a rispondere nei confronti degli azionisti. Sono parole che stridono con la pratica corrente, delle imprese multinazionali e non che delocalizzano in continuazione stabilimenti, sedi legali, societarie e di quotazione, senza altro obiettivo diverso dal profitto. Dal punto di vista sociale la May ha auspicato una Shared Society, in cui ai diritti si accompagnano le responsabilità reciproche. Niente a che vedere con l’individualismo egoista e l’abbandono dei più deboli, che ha caratterizzato il liberismo degli anni passati: si ritorna alla idea di comunità. Sono trasformazioni radicali, ancor più di quelle evocate da Trump, distanti anni luce dal linguaggio economico e finanziario abituale a Davos.
Mentre la Cina ha assimilato perfettamente le regole e soprattutto la retorica della globalizzazione, l’America e la Gran Bretagna, che pure ne hanno fatto la loro bandiera nei decenni passati, ora perseguono nuove strade. Il mondo cambia, a Davos, anche così.