Mentre il mondo economico, industriale, imprenditoriale tedesco si affanna a cercare di capire cosa l’era (Donald) Trump porterà con sé – veramente il capo di Stato americano vorrà mettere a repentaglio i rapporti economici con la prima (e attualmente anche l’unica vera) potenza economica europea?, ci si chiede e e ci si risponde “No, non lo farà” (almeno i più vogliono essere ottimisti) –, alcuni gioielli di famiglia perdono pezzi importanti. È il caso di Deutsche Bahn e di Volkswagen. La notizia delle dimissioni immediate del ceo di Deutsche Bahn, Rüdiger Grube (nella foto), giunta ieri nel corso della giornata, ha colto di sorpresa tutti, tanto da dominare le pagine web dei grandi media scavalcando addirittura le notizie sui provvedimenti di Donald Trump nei confronti dei profughi e dei cittadini di diversi stati musulmani.
Dunque Rüdiger Grube, che guidava le ferrovie tedesche dal 2009, ha gettato la spugna da un momento all’altro. Secondo quanto scriveva lo Spiegel – il primo a darne la notizia – Grube, 65 anni, ieri (lunedì) si attendeva da parte del consiglio di sorveglianza, come pattuito nei precedenti colloqui, il rinnovo dell’incarico per altri tre anni, senza però gli aumenti previsti normalmente in questi casi. Ma in tarda mattinata il consiglio di sorveglianza gli aveva presentato un accordo diverso, il rinnovo era solo per due anni.
È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, nonostante Grube si fosse fino a quel momento mostrato disponibile a quasi ogni sacrificio pur ti mantenere l’incarico. Ora si dice che dei risultati portati a casa da lui in questi anni siano rimasti sotto le aspettative. Grube era stato chiamato nel momento in cui le ferrovie tedesche si dibattevano in una delle sue cicliche grandi crisi: era l’inizio del 2009 e si era appena saputo che la Deutsche Bahn controllava di nascosto i suoi dipendenti (conti bancari compresi) per contrastare la corruzione interna, come provarono a difendersi i vertici di allora. Grube si era rimboccato le maniche, ma non aveva sempre ottenuto i risultati sperati e voluti dal datore di lavoro, cioè lo Stato tedesco. Era riuscito a porre a riparo solo in parte la diminuzione di viaggiatori, molti passati a bus low cost a lunga distanza; ai disagi per i pendolari, a malfunzionamenti di servizi come il wifi sulle carrozze e le gravi perdite registrate nel settore traffico merci su rotaie. Nel 2015 la Deutsche Bahn che conta 300mila dipendenti e un fatturato di 40 miliardi di euro, aveva registrato una perdita di 1,3 miliardi di euro, compensata, però, già l’anno scorso con un profitto di 1,8 miliardi di euro.
Resta dunque la domanda del perché il consiglio di sorveglianza non abbia mantenuto la parola data. Che abbia ragione lo Spiegel online , il quale nel pomeriggio titolava: “La strada ora è libera, ma per favore non per Ronald Pofalla”. Pofalla è stato capo di gabinetto di Merkel e, politicamente parlando, non proprio uomo di grande acume. La sua dipartita dalla politica alla fine della precedente legislatura ha fatto tirare un respiro di sollievo anche a più di un suo compagno di partito. Lui trovò nel gennaio 2015 una nuova collocazione nei piani alti delle ferrovie tedesche. In dicembre Gruber l’ha voluto addirittura promuovere a capo infrastruttura. Che sia una cordata Pofalla la quale ha voluto accelerare i tempi, sgomberando il campo per il posto più alto alla Deutsche Bahn?
Ma mentre nelle redazioni economiche e politiche ci si scervellava ancora sulle dimissioni di Grube, un’altra notizia scombinava gli impaginati e i piani di lavoro. Le agenzie battevano la notizia delle dimissioni di Christine Homann-Dennhardt, la manager strappata poco più di un anno fa alla Daimler se ne va, o meglio viene fatta andare e… a carissimo prezzo. Homann-Dennhardt era stata, prima di mettersi al servizio dell’industria, membro della Corte costituzionale tedesca, finita quell’esperienza era passata nel direttivo della casa automobilistica Daimler. Poi, dopo lo scandalo delle emissioni truccate, Volkswagen l’aveva convinta a lavorare per la casa automobilistica di Wolfsburg. VW la voleva così tanto, da spingere i vertici a impegnarsi a riconoscerle la considerevole buona uscita che le sarebbe spettata prima o poi da Daimler. Ora, sommando le varie spettanze, VW dovrà riconoscere a Homann-Dennhardt la cifra di tutto rispetto di 12 milioni di euro, comprensiva non solo delle tredici mensilità prevista, ma di ulteriori due anni di stipendio, più quello che avrebbe ricevuto da Daimler.
Già ma perché la casa automobilistica di Wolfsburg preferisce dopo un solo anno dall’averle assegnato l’incarico di andare a fondo alla vicenda emissioni, pagare e mandare via Homann-Dennhardt? A tal proposito sono due le voci che godono di eguale credibilità: secondo una fazione Homann-Dennhardt avrebbe perso la corsa contro il capo dei giuristi VW Manfred Döss, sostenuto dalle due famiglie proprietarie, i Piëch e i Porsche e che ha trattato con le autorità giudiziarie americane; secondo l’altra fazione, invece, l’ex giudice della Corte costituzionale stava prendendo troppo sul serio il suo incarico e indagando un po’ troppo a fondo nella vicenda emissioni truccate.