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Il sindaco di Genova Marco Doria e il suo avo più illustre

Marco Doria

Il sindaco di Genova Marco Doria, il cui mandato scade tra pochi mesi, ha annunciato che non si ricandiderà. Il consiglio comunale, con il decisivo concorso di una parte della maggioranza di centrosinistra, ha bocciato la delibera che prevedeva l’ingresso di soci privati nell’azienda municipale che gestisce la raccolta dei rifiuti. Si chiude così mestamente la sindacatura di un esponente della famiglia forse più illustre del capoluogo ligure. Marco Doria, figlio di Giorgio (detto il “marchese rosso” perché iscritto al Pci), gode infatti dei titoli di marchese, patrizio genovese e conte di Montaldeo. Egli, soprattutto, ha come suo antico avo il principe Andrea Doria (1466-1560) che è stato il simbolo non solo di una grande potenza marinara, ma di un’intera epoca.

Come ricorda Gabriella Airaldi nella sua bella biografia (Andrea Doria, Salerno Editrice, 2015), esponente di spicco dell’oligarchia fondiaria, il principe non era uno dei tanti capitani di ventura che arruolavano mercenari al soldo di qualche tiranno di provincia. Né era uno dei tanti “asientistas” (prestatori di denaro) o fornitori di biscotti e di carne, in grado di lucrare interessi ciclopici sulle somme pattuite. Era invece un artista della guerra, che “fa dai pirati sicuro [il Mediterraneo] per tutti i lati” (“Orlando Furioso”, XV canto). In questo senso, per Ludovico Ariosto nelle sue imprese riviveva l’antico codice cavalleresco.

I Doria, cittadini genovesi di diritto (Andrea era nato a Oneglia), erano titolari di una delle maggiori fortune private e del più importante porto del tempo. Esperti uomini d’affari, reinvestivano incessantemente nella guerra i proventi di compensi e bottini, saccheggi e prebende. Erano grandi elettori del doge e gestivano le cariche pubbliche più rilevanti. La formazione giovanile di Andrea si compie quindi in un ambiente dove si respirava l’aria del potere a pieni polmoni.

Ancora ragazzo, comincia a frequentare le corti di mezza Europa. Già amico di cardinali e pontefici, si circonda di intellettuali e artisti, stringe rapporti con le élite economiche e militari dell’epoca, plasma la sua forma mentis cosmopolita. La fama di Andrea sale alle stelle nel 1506, quando riesce a reprimere con violenza inaudita la ribellione dei corsi, “riducendoli alla prima obbedienza”. Mentre nel 1507 le sue doti di abilissimo negoziatore saranno determinanti per sedare il tumulto delle “cappette” (dal nome del caratteristico abbigliamento dei rappresentanti del popolo). I “populares”, ostili ai francesi,chiedevano due terzi delle cariche civiche, e non solo la metà come stabilito nel 1413. Accerchiati dall’esercito di Luigi XII, sono costretti ad arrendersi. Grazie ai buoni uffici di Andrea, la vecchia composizione delle magistrature viene annullata, e ciò permette a nobili e popolari di concordare una soluzione del conflitto che viene accettata dal re di Francia.

La mattina del 12 settembre 1528 Andrea raggiunge la piazza genovese dove, attorno alla chiesa gentilizia di San Matteo, si alzavano i palazzi dei Doria. Lì pronuncia un memorabile discorso. Non è più il momento delle “vane e disonorevoli parcialità”, ammonisce. Occorre essere “huomini rationali”. Devono pertanto cessare le lotte intestine che hanno dilaniato Genova. I ceti dirigenti, qualunque siano i loro avi, hanno il dovere di difendere quella libertà politica che è presidio della libertà degli affari. Infine, propone un’Unione tra nobili e popolari che non penalizzi nessun mestiere e nessun cittadino. Dopo questo discorso, il tradizionale sistema di potere cambierà pelle. L’unica istituzione che non viene toccata -“exemplo veramente raro”, secondo Machiavelli- è il Banco di San Giorgio. Cassaforte della Repubblica, incamerava gli introiti provenienti dalla riscossione delle principali gabelle, tra cui quelle -particolarmente redditizie- sull’attività portuale. I “luoghi”, ossia le quote del debito pubblico che deteneva, erano considerati un bene rifugio che attirava anche il risparmio estero, sicché il Banco poteva esercitare il credito a livello europeo.

Il nuovo sistema di potere ideato da Andrea sarà messo a dura prova da numerose congiure, in particolare da quella ordita nel gennaio 1547 dal filofrancese Gianluigi Fieschi. Sventata in un bagno di sangue, la vendetta di Andrea fu spietata. Avendo spianato la strada all’egemonia asburgica nella penisola, essa è stata letta come una sorta di spartiacque della storia europea, divenendo anche una fonte di ispirazione per filosofi e letterati come Rousseau, Schiller e Francesco Guerrazzi.

Nell’ultimo decennio della sua vita, il principe dovrà fronteggiare la bellicosa alleanza franco-turca, che nell’alto Tirreno stava cercando di chiudere in una morsa il porto genovese. Nonostante l’età avanzata, continua a guidare le sue galee in mille scaramucce e in mille battaglie. Nel 1559 ottiene la sua ultima vittoria: il Trattato di Cateau-Cambrésis, che sanciva la supremazia spagnola in Italia, restituisce la Corsica a Genova.

Tutti i quadri che ritraggono il principe alludono in vario modo al ruolo che ha avuto nella società e nella cultura genovese. Come Nettuno è ritratto da Sebastiano del Piombo (1526) e dal Bronzino (1540); e al British Museum è conservato il disegno della statua -mai scolpita- di Baccio Bandinelli. Nel quadro di William Key (1548) Andrea è avvolto in un manto di velluto scuro, che copre una veste di seta nera, e porta la berretta dei magistrati. L’immagine ricorda quella di Carlo V dipinta da Tiziano dopo la battaglia di Muhlberg (1547) contro la Lega di Smalcalda (di fede protestante). Nel quadro lo sguardo di Andrea è rivolto verso lo spettatore, ma di fronte ha un gatto soriano che lo fissa a sua volta. Proprio un gatto compariva nello stemma araldico dei Fieschi, insieme al motto “Sedens Ago” (Agisco stando fermo). Inoltre, vicino al felino c’è un orologio, che richiama il detto latino “Ruit hora et irreparabile fugit tempus”, l’inarrestabile fluire del tempo. Oppure l’orologio è l’Impero e il gatto è la Repubblica: uno rappresenta l’ordine e l’altro la libertà. Non lo sapremo mai, come non sapremo mai se, prima di spirare il 25 novembre 1560, sia stato il principe a scegliere il motto biblico inciso sulla sua tomba: “Super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et dragonem” (Tu camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il drago).


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