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Ancora? Ovvero come la Partitocrazia affonda l’Italia

Il sistema politico italiano – almeno nella forma che ha assunto all’interno di quella che definiamo, in modo improprio, “Seconda Repubblica” – vive di scissioni, fusioni e cambi di nome fino a suonare – nelle orecchie ormai distratte dell’elettorato – come un disco rotto: all’interno del partito X cresce il dissenso verso la dirigenza e – dopo un lasso di tempo più o meno lungo – si arriva alla scissione dello stesso o il ritorno al vecchio nome o la fusione con altri soggetti. Così è stato dal 1992 ad oggi per il PDS, Forza Italia, Alleanza Nazionale, i mille partiti di centro eredi della Democrazia Cristiana senza contare l’altrettanto vasto universo della sinistra socialista e post-comunista o post-moderna.

Scissioni, epurazioni e nuovi nomi. Uno dei casi più eclatanti, finora, è stata la rapida ascesa e fine del Popolo della Libertà, nato dalla fusione della prima Forza Italia ed Alleanza Nazionale. Con una scrittura drammatica degna del miglior Shakespeare – e dopo quattro anni vissuti fra fronde interne, tradimenti e malcontenti – il PdL si è scisso generando una nuova Forza Italia, Fratelli d’Italia – che poi ha ripreso anche la sigla di AN – vari fuoriusciti sparsi, recentemente ALA e… lasciamo perdere perché solo Google può aiutarci a capire chi ha lasciato cosa e per dove. Poi è arrivato il momento delle epurazioni dal Movimento 5 Stelle, i cui ex-membri si possono trovare in una decina di sotto gruppi parlamentari o raminghi nelle vaste praterie del Gruppo Misto del Senato e della Camera. Ora, invece, è il momento del PD, con la scissione avvenuta all’Assemblea del partito del 18 febbraio e che ha visto da una parte la Direzione Nazionale – i renziani per capirsi – e dall’altra la minoranza del partito guidata dal capogruppo alla Camera Roberto Speranza ed il Governatore della Toscana Enrico Rossi a cui dovrebbe aggiungersi – condizionale d’obbligo visto che potrebbe uscire dal partito o, con un twist che nemmeno Hollywood potrebbe potrebbe concepire, candidarsi alla Segreteria dello stesso PD – quello della Puglia Michele Emiliano. Attorno a loro, le varie frange della cosiddetta “Sinistra Interna” ovvero Bersani e i bersaniani, D’Alema e i dalemiani, Rosy Bindi – che per statuto non potrebbe essere ricandidata dal partito alle prossime elezioni – alcuni CGIL, alcuni ARCI.

Il teatro della politica. La scrittura è degna di una commedia di Ionesco. In primo piano l’incertezza sulle decisioni – rimango? vado? sto da solo? mi candido? – del Governatore della Puglia Emiliano, la candidatura alla Segreteria – per salvare il partito – del Ministro della Giustizia Orlando e la posizione dell’ex-dalemiano Orfini ora braccio destro di Renzi in Direzione, mentre, sullo sfondo, incombe la figura di Massimo D’Alema, indicato da alcuni come la mente dietro alla scissione. Difatti, questo ben nutrito gruppo di scontenti potrebbe aggregarsi attorno al movimento fondato dal “leader Massimo” nominato – con un egregio gioco di parole che sottolinea quello che sembra l’unico obiettivo della politica italiana e, se permettete, con una venatura di populismo – “ConSenso“, l’erede dell’interessante esperimento di opposizione interna al proprio partito e al proprio governo – ovvero i comitati per il “NO” al referendum costituzionale, promossi dallo stesso D’Alema –  che si è rivelato il cavallo di Troia perfetto per far cadere il governo Renzi ed arrivare alle dimissioni dello stesso dalla Segreteria.

Gruppi parlamentari in aumento. Al di là dei destini politici degli scissionisti, del partito stesso e di tutto quanto gli gira attorno – e per evitare di perdersi nel labirinto di sigle, simboli, sondaggi e piattaforme politiche – è meglio concentrarsi sui motivi di questa scissione. La rottura del partito ha già portato alla rottura del gruppo parlamentare e, anche se il nuovo gruppo fondato da Enrico Rossi – l’ennesimo, si veda la grafica in fondo al paragrafo – si è detto fedele al governo Gentiloni, c’è il rischio di una crisi di governo. Questa potrebbe portare al rimpasto dello stesso con conseguente ingresso di nuovi sottosegretari o ministri per “esprimere al meglio le diverse opinioni della maggioranza” o – in mancanza di un accordo – ad un nuovo esecutivo e quindi alle elezioni anticipate, che poi paiono, oramai, l’obiettivo di mezzo parlamento e qualcosa di più, Mattarella permettendo.

Elezioni ora? Il perché è semplice. Grazie alla nuova legge elettorale – il Legalicum o Consultellum 2 o il nuovo Lauricellum – che di fatto ha riportato il proporzionale, ciascun partito potrà fare i conti con il proprio peso elettorale, aspirare ad entrare in Parlamento superando la soglia del 5% e, visto che è praticamente impossibile che un singolo partito raggiunga il 40% – successe l’ultima volta alla DC nel 1958- avere un peso nella formazione di un governo. Se tali elezioni anticipate avvenissero, l’Italia si ritroverebbe a votare nel bel mezzo del 2017, probabilmente in contemporanea con le presidenziali francesi con l’obiettivo di nominare un nuovo governo per l’estate, ma con poche – se non minuscole – possibilità di governare il paese. La colpa? Dell’Unione Europea ovviamente, ma non per “dittature tedesche” o “diktat di Bruxelles”, ma per “deficienze” del sistema politico nostrano.

L’Europa. Una delle conquiste – forse l’unica -del governo Renzi è stata di aver dato – grazie ai programmi di riforme che sì, ammettiamolo, erano richieste con forza dai partner europei, ma anche da buona parte dell’elettorato italiano – una parvenza di stabilità al paese. Questo ha garantito un rilassamento dei partner europei nei confronti del debito pubblico italiano con un effetto a cascata su conti e sulla credibilità del paese. Il governo Gentiloni – prodotto della fine dell’esperimento renziano – sta sperimentando sulla sua pelle il cambiamento di atteggiamento dell’Europa verso l’Italia, mentre un possibile futuro governo-accozzaglia – che sia un’improbabile alleanza “M5S – Lega” in nome del sovranismo o un PD-FI-FdI-Alfano-etc. – porterebbe solo ad un acutizzarsi del controllo di Bruxelles sui conti e sulle finanze italiane, ampliando la fossa che l’Italia – pur sempre il terzo paese dell’Unione – si sta scavando da anni.

Ebbene sì, perché nel continuo piagnucolare – o urlare – che i nostri governi siano eterodiretti dall’Unione – “sudditi non sovrani in casa nostra” – si dimentica che basterebbero governi stabili e scenari politici meno frammentari, per evitare ingerenze esterne e guadagnare credibilità istituzionale.

In fondo, si tratta di fornire al paese figure di riferimento internazionale che durino più di una manciata di mesi e governi la cui durata non si calcoli in giorni, ma in anni: in fondo se noi stessi non possiamo ricordarci i nomi dei membri del governo – chiedetevi chi è l’attuale Ministro dell’Interno, così, per fare un test – perché i partner europei dovrebbero interessarsene?

 

Originariamente pubblicato dall’autore su: il Caffè e l’Opinione


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