La guerra intestina in corso a Washington si sta spingendo davvero troppo oltre. Stavolta, gli avversari di Trump hanno preso di mira il suo ministro della giustizia, Jeff Sessions. Avversato dal mondo liberal in quanto profondamente conservatore e con idee controverse sull’immigrazione, Sessions è accusato di essere parte del grande intrigo russofilo che sarebbe stato ordito dai membri dello staff del presidente se non con la complicità del presidente stesso. In particolare, il ministro avrebbe mentito ai senatori circa il suo incontro vis a vis con l’ambasciatore russo. Lo stesso motivo che ha portato alle clamorose dimissioni di Michael Flynn, il consigliere per la sicurezza nazionale meno longevo della storia americana (è durato appena tre settimane).
Il Russiagate è, di fatto, la copertura di un colossale complotto contro Trump condotto da ex membri dell’amministrazione Obama, dalle agenzie di intelligence e dai media antipatizzanti, tutti soggetti che hanno mal digerito la vittoria elettorale di The Donald e che ritengono azzardata l’apertura di Trump verso Mosca. Per questo, stanno conducendo un’offensiva a colpi di rivelazioni (i famosi leaks) mirati a demolire l’agenda di Trump e il suo governo. Una vicenda che la dice lunga sulla natura della democrazia a stelle e strisce, un agone nel quale non sono esclusi colpi mancini e boicottaggi.
C’è una cosa da dire a proposito della russofilia di Trump. Non è un approccio di suo conio, anzi: sono in molti nel mondo a perseguire il dialogo col Cremlino, e tra questi ci sono parecchi paesi europei, incluso il nostro. In un magistrale articolo uscito qualche tempo fa su Politico, niente meno che Edward Luttwak ha sposato la linea di Trump definendola l’embrione di una Grand Strategy. Agganciando la Russia, sostiene Luttwak, gli Stati Uniti potrebbero meglio arginare il minaccioso espansionismo cinese.
L’ex impero di mezzo rappresenta infatti, per l’establishment della politica estera Usa, il principale nemico degli Stati Uniti in quanto intenti a destabilizzare la regione di pertinenza e, quindi, numerosi alleati di Washington. L’aggressività di Putin, pur inconfutabile, non può essere paragonata a quella cinese, che in prospettiva tende a disfare l’ordine mondiale liberale costruito dall’Occidente nel dopoguerra. La Russia, in poche parole, può essere abbordata venendo incontro ad alcune sue priorità strategiche. Con la Cina invece nessun accomodamento è possibile, in quanto mira a rifare il mondo a propria immagine e somiglianza. E un mondo in cui il totalitarismo cinese spadroneggia non sarebbe affatto un posto sicuro né gradevole.
Questa teoria sfida il senso comune delle élite americane ma appare quanto mai ragionevole oltre che nel solco della più convenzionale dottrina delle relazioni internazionali. Questo, dalle parti di Washington, non pare essere gradito soprattutto perché a perseguirlo è un uomo che agisce in modo contrario alle convenzioni della politica tradizionale, un misto di ortodossia liberal e di correttezza politica. Trump è proprio agli antipodi, e a Washington non vedono l’ora di far saltare il tavolo. Non ci riusciranno.