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Abu Bakr al-Baghdadi è scappato da Mosul, cosa succederà ora

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Il califfo è scappato da Mosul. Lo riferiscono fonti di intelligence irachene e americane sentite dall’agenzia Reuters. Abu Bakr al-Baghdadi ha dunque scelto di abbandonare al loro destino i suoi miliziani, assediati nel centro di Mosul ovest da centomila uomini che stanno avanzando palmo a palmo, inesorabilmente, verso la vittoria finale.

Il califfo si sarebbe rifugiato nelle regioni desertiche a nord dell’Eufrate. Il califfo sarebbe ora al sicuro in qualche villaggio, tra civili simpatizzanti, pronto a guidare la guerriglia contro le forze irachene che stanno sgretolando la porzione occidentale del califfato.

Le ultime informazioni precise su di lui risalgono al 13 febbraio, quando sfuggì ad un bombardamento dell’aviazione irachena che aveva ricevuto un’imbeccata su una riunione con gli alti comandi del califfato. Baghdadi riuscì a scamparla, anche per le misure di sicurezza che da sempre caratterizzano i suoi spostamenti.

Pare infatti che il califfo non resti mai nello stesso posto più di qualche ora: ha evidentemente appreso la lezione del raid delle forze speciali americane che il 2 maggio 2011 uccisero Osama bin Laden nel suo nascondiglio ad Abbotabad. Baghdadi inoltre usa più automobili nei suoi spostamenti, per evitare la fine riservata all’ideologo qaedista Anwar al-Awlaki, ucciso da un drone statunitense in Yemen nel 2011.

Non sarà semplice catturarlo o eliminarlo, dunque. Quel che è sicuro, stando ai comandanti iracheni e americani impegnati nell’offensiva di Mosul, è che la parabola del califfato è giunta alla sua fine. A resistere, a Mosul ovest, sono rimaste ormai poche centinaia di jihadisti, quasi tutti autoctoni.

I foreign fighter sarebbero in fuga, essendo poco interessati ad una fine eroica nella vana resistenza per Mosul. Le forze regolari sono ormai giunte nei pressi della grande moschea al-Nour, dove nel giugno 2014 al-Baghdadi pronunciò un sermone che annunciava urbi et orbi la nascita del califfato. I comandi alleati sono ottimisti sul prosieguo dei combattimenti: qualcuno si sbilancia e parla di una, massimo due settimane per la fine delle operazioni e la liberazione definitiva di Mosul.

La sua caduta sancirebbe la fine dell’utopia califfale, specie alla luce delle imminenti operazioni per liberare la roccaforte siriana dello Stato islamico, Raqqa. Al momento, tuttavia, non è chiaro chi avrà l’onere di espugnarla: le forze curdo-arabe sostenute dagli Stati Uniti, l’esercito regolare siriano supportato dai russi o i ribelli sunniti alleati di Ankara.

Gli americani hanno reso nota la propria volontà di pensarci loro, ma è chiaro che sarà necessario un accordo tra le tre forze in competizione onde evitare pericolose sovrapposizioni. Non a caso, qualche giorno fa ad Antalya, in Turchia, si sono incontrati i capi di stato maggiore degli eserciti Usa, Russia e Turchia per discutere delle imminenti operazioni in Siria. Trovare la quadra non sarà facile, visti gli interessi in competizione. Trump in verità non ha nascosto il proprio desiderio di collaborare coi russi, incontrando però l’opposizione del suo ministro della difesa James Mattis secondo cui non sussistono le condizioni per un coordinamento con Mosca e Damasco.

Permettere all’asse siriano-russo-iraniano di intestarsi la vittoria finale contro il califfato implicherebbe una pesante ipoteca sugli equilibri futuri della Siria, dove il settarismo sciita mina alla radice ogni prospettiva di pacificazione. C’è dunque ancora molto lavoro da fare per sancire la fine dello Stato islamico, anche se mai come ora si intravede chiaramente il tramonto del progetto rivoluzionario jihadista. Che ora, con Mosul al lumicino e Baghdadi alla macchia, è destinato a regredire allo stadio di guerriglia contro i propri nemici.

Lo Stato che nel suo apogeo controllava un territorio grande come la Gran Bretagna e regnava su milioni di persone non c’è più, ma non è chiaro se al suo posto risorgeranno Stati – quello siriano e iracheno – finalmente riunificati e pacificati.



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