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Netanyahu bis: democrazia senza opposizione

Una cosa è scontata dal giorno in cui Bibi Netanyahu ha convocato le elezioni anticipate: alla fine le vincerà lui. Resta solo da vedere chi sarà il suo vero avversario, se conquisterà i voti sufficienti per emergere: chi si proporrà come vera alternativa, chi tenterà di dare corpo a un’opposizione capace di costruire in un tempo moderatamente breve una proposta diversa di Israele, nel tempo moderatamente breve di una legislatura: in Israele non arrivano mai alla scadenza naturale di cinque anni.

Da quello che una distratta e poco combattuta campagna elettorale offre, la candidata sembra essere Shelly Yacimovich, leader del partito laburista: non tanto per la qualità delle visioni presentate, quanto per essere l’unica esponente del centro laico e del centro-sinistra a dichiarare di voler restare all’opposizione anche dopo la vittoria di Netanyahu e del Likud. Tzipi Livni, che ha creato il suo partito Hatnuah (“Il Movimento”), e l’ex attore e giornalista Yair Lapid di Yesh Atid (“C’è un futuro”) hanno già fatto capire di essere pronti a partecipare a una ennesima grosse koalition con Bibi.

Il problema è se Yacimovich abbia la personalità e le qualità del capo in un Paese da tempo in crisi di leadership. Durante la campagna ha cercato di tornare alle origini del movimento laburista, al Mapai delle grandi questioni sociali e del sindacalismo. Ha deliberatamente rinunciato a mettere la questione palestinese al primo punto della sua agenda per calcolo elettorale: sa anche lei che il problema non è popolare fra gli israeliani. Il divario fra i pochi sempre più ricchi e i molti sempre più poveri con una classe media sempre più ignorata, esiste anche qui. Ma nel momento in cui Netanyahu ha lasciato che il deficit di bilancio si espandesse a favore di costose ma utili spese sociali, Yacimovich si è trovata con pochi argomenti.

La scelta delle opposizioni di parlare poco e in modo molto realistico del processo di pace, è tecnicamente corretta in tempo di elezioni. Ma i palestinesi restano al centro del dibattito di oggi e del futuro di Israele, anche se sotto una forma diversa da quelle tradizionali della diplomazia o dell’Intifada. In Israele è in corso un processo pericoloso di riduzione dei margini della sua storica democrazia. Da anni la destra del Likud, i più piccoli partiti nazional-religiosi e i coloni stanno cercando di far passare alla Knesset leggi per ridurre i fondi alle organizzazioni non governative (come l’Egitto di Mubarak e poi di Mohamed Morsi); vogliono limitare il potere della Corte Suprema e la libertà di stampa, ridurre il diritto di espressione delle opposizioni e della minoranza araba d’Israele. Un deputato likudnik, Danny Danon, sostiene che per avere diritto alla patente e alla carta d’identità gli arabi, il 20% della popolazione, devono giurare lealtà allo Stato e alla sua essenza ebraica. Danon, Zeev Elkin, Tzipi Hotovely, Yariv Levine, i giovani turchi dell’ala destra Likud, alle primarie del partito hanno conquistato i primi posti nella lista elettorale. Al quindicesimo (il Likud avrà almeno 35 dei 120 seggi) c’è Moshe Feiglin, un fondamentalista dell’ebraismo, che vuole ricostruire il Tempio sulla spianata di Gerusalemme e pagare mezzo milione di dollari a ogni famiglia araba disposta a emigrare dalla Cisgiordania occupata.

Questo generale tentativo di ridurre per legge la democrazia israeliana, ruota attorno alla questione palestinese, anche se la campagna elettorale non ne vuole parlare. Non riconoscendo i loro diritti nazionali né potendo sconfiggerli militarmente, la destra combatte i palestinesi cambiando le regole del Paese. Si giudaizza la democrazia.

Di fronte a questa realtà non è un paradosso per chi invoca i diritti palestinesi e la ripresa di un processo di pace, sperare in Bibi Netanyahu: al contrario è la realtà. In un Paese che scivola inesorabilmente verso il tribalismo, il primo ministro alla fine è un moderato. E un governo di coalizione nel quale Tzipi Livni, Yair Lapid (insieme non arrivano a 15 seggi) e possibilmente i laburisti (forse 20), impediscano che il potere cada nelle sole mani di un fronte di estrema destra, è l’unica razionale speranza. Per questo Shelly Yacimovich non sarà una leader ed è meglio che rinunci a guidare un’inutile opposizione.

Ugo Tramballi è giornalista de “Il Sole 24 Ore”

Articolo tratto dal dossier su Israele dell’Ispi

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