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A colpi di agenda

Metti il tigre nell’agenda
In queste ore la squadra di Monti è asserragliata nel proprio quartier generale romano di Via del Corso, alle prese con un compito molto delicato: “potenziare” l’agenda Monti. Già, l’agenda. In questa campagna elettorale, l’agenda non è un dettaglio secondario. Monti ha infatti deciso di farne il perno della propria strategia. Un marchio distintivo, il testo fondativo, il simbolo su cui fondare il patto con i nuovi elettori e federare gli alleati politici. Una sorta di franchising politico, in cui Monti agisce come franchisor e sceglie i propri franchisee. Accolto come soluzione innovativa, questo accorgimento ha perso però slancio nel corso di poche settimane, al punto da far scrivere a Massimo Gramellini su La Stampa che l’agenda Monti rischia di fare la fine di tutte le agende cartacee, che dopo un anno sono da buttare.

Imperativo visibilità
Dopo un’iniziale crescita nei sondaggi, largamente dovuta al suo prestigio personale, Monti non è più cresciuto nei consensi. Colpa, forse, della lunga fase di “assemblaggio” delle liste di candidati per il Parlamento, in cui Monti ha scontato l’assenza di esperienza e lasciato il pallino in mano agli alleati. A danneggiare Monti potrebbe però contribuire il suo approccio, molto attento a non urtare gli interlocutori ma poco adatto in una fase di corpo a corpo come è la mischia elettorale. Passata la fase iniziale, per Monti i problemi sono per esempio nati quando dal PD è stato fatto notare che le differenze rispetto al proprio, di programma, non sono poi così evidenti. A poco sono valse le controffensive, troppo garbate per toccare un elettorato riluttante ed esitante. Eppure Monti ha notato più volte che a contare non sono solo le agende visibili ma anche quelle meno visibili e “parallele”, come la linea della CGIL camussiana o di SEL.

Viva la diversità
Il nodo è quello delle differenze. Come riuscire a differenziarsi dalle vecchie formazioni? La questione è di portata enorme, e ha fatto capolino nel recentissimo botta e risposta tra Mario Monti e il Financial Times, che ha lasciato ferite più profonde di quanto sembri. La testata britannica infatti ha indirettamente confermato una delle tesi ribadite più insistentemente dalla campagna elettorale del PDL, secondo cui Monti non è un vero rivale di Bersani ma un suo possibile partner. Dopo la mail di autodifesa di Monti, causata da un corsivo impietoso della firma di punta Wolfgang Munchau, il FT è corso subito ai ripari. Il quotidiano britannico ha confermato la grande credibilità del premier italiano, ma ha pure aggiunto che la credibilità è una caratteristica comune a Monti e Bersani. Così facendo, il Financial Times, ha però fornito un insperato assist alla campagna di Berlusconi, che fin dall’inizio della corsa sta dipingendo Monti come stampella della sinistra, un possibile partner di governo anziché un rivale di Bersani.

Colpire gli avversari
Pare che sia questo il consiglio dato dal guru politico di Obama, il veterano David Axelrod. Un consiglio azzeccato, se è vero che i sondaggi continuano a indicare un enorme numero di votanti indecisi o astenuti. E’ questo il vero terreno di caccia delle prossime elezioni, la foresta dove si sono rintanati i delusi e gli amareggiati, la mega-minoranza silenziosa la cui reale composizione è tutt’ora abbastanza misteriosa e poco “illuminata” dai sondaggi. Cosa c’è dietro al 40% di indecisi? Esuli dei grandi partiti (soprattutto di PDL e Lega)? Voto di scambio che resta alla finestra fino all’ultimo sperando in un’offerta per posizionarsi? Sono convinto che che la componente degli esuli sia significativa. Per Berlusconi la sfida è di dimostrare che Monti ha lo stesso software pro-tasse di Bersani. Come ha notato nei giorni scorsi Luca Ricolfi, Berlusconi, che aveva tolto l’ICI sulla prima casa, ha un pregresso credibile su questi temi. Per Monti, invece la sfida è quella di essere sufficientemente “brutale” da distanziarsi dal centrosinistra e dal centrodestra al tempo stesso.

Quale nemico?
Serviranno prove forti per convincere elettori particolarmente amareggiati. Un tema su cui potrebbero saltare fuori indizi quantomeno interessanti è la corsa per il Quirinale. Come ha notato Pierluigi Magnaschi in un editoriale su Milano Finanza del 23 gennaio, Monti ha verosimilmente scelto di entrare in campo quando ha cessato di fidarsi del PD. Più in dettaglio, la rottura della fiducia riguarderebbe la corsa per il Quirinale. Monti, questa la ricostruzione di Magnaschi, a un certo punto ha sentito crescere dentro il PD le quotazioni di un candidato interno: Massimo D’Alema. Nel PD, D’Alema è riuscito a “interiorizzare” la iniziale diversità dei moderati di Renzi, nonostante gli iniziali attacchi di Renzi proprio a D’Alema. Sul piano internazionale – piano particolarmente rilevante per l’inquilino del Colle – D’Alema ha lavorato molto per accreditarsi a Washington (casomai, i suoi problemi sono con la community finanziaria newyorchese, che non gli condona le posizioni filopalestinesi). E sempre D’Alema è stato tra i più lesti ad approfittare dell’editoriale di Wolfgang Munchau, confermando che sì, anche secondo lui Monti è “unfit”. C’è da giurare che il match sia appena iniziato.


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