Dottor Pedde, è abbastanza diffusa la rappresentazione dell’Iran come una teocrazia fondamentalista piuttosto statica. È una visione corretta dal punto di vista politico?
In termini costituzionali certo si può parlare di teocrazia. Che poi questo modello sia teocratico o integralista nella realtà, è un altro discorso. La Repubblica islamica nei suoi 34 anni di storia ha già subito tre grandi evoluzioni, passando dalla fase rivoluzionario-khomeinista a quella post-khomeinista di ricostruzione post-bellica e infine a quella riformista, il cui crollo ha lasciato il campo all’attuale fase di stasi dominata da una pluralità di linee conservatrici, assolutamente eterogenee tra di loro. E sotto a questo movimento di forme, c’è stato il mutamento della composizione generazionale della classe dirigente, che è sempre meno clericale e sempre più legata agli interessi economici. Perciò io contesto la visione dell’Iran come Paese dominato da un’interpretazione radicale dell’Islam sciita sia sul piano della politica internazionale sia su quello interno. Parlerei invece di una potenza estremamente pragmatica, caratterizzata da una dinamica interna che è all’opposto del principio del martirio, ovvero del sacrificio irrazionale dei propri interessi nazionali.
Perché il riformismo e il khatamismo sono falliti?
C’è una regione esogena in primo luogo: il contesto internazionale non è stato in grado di interagire con il riformismo iraniano, cui non sono state date adeguate opportunità. Sul piano interno, il problema maggiore è stata senz’altro la corruzione. L’incapacità di sradicarla ha scavato un fossato con gli elettori, che per questo hanno punito le forze riformiste.
Perché definisci Ahmadinejad un perdente in questa fase politica?
Ahmadinejad ha esaurito il suo mandato, e per vincoli costituzionali non può ripresentarsi. Egli è stato espressione di una delle tre componenti conservatrici dominanti, e precisamente quella più orientata allo scontro con la vecchia generazione. Ha ingaggiato una guerra politica domestica con questi rivali conservatori, perdendola soprattutto in considerazione dell’avventata posizione in politica estera e in politica economica. Ai primi di giugno ci saranno le elezioni: ancora se ne parla poco, bisogna aspettare il capodanno iraniano (21 marzo). Saranno comunque orientate ad individuare una linea politica di moderazione che permetta di passare da questa fase particolarmente dura di lotte intestine ad una fase più stabile. L’obiettivo sarebbe triplice: un rilancio del negoziato nucleare, un alleggerimento delle sanzioni e una parziale e graduale normalizzazione della situazione politico-economica del Paese.
Quali sono le principali preoccupazioni geopolitiche e strategiche dell’establishment iraniano?
L’Iran ritiene che il vero pericolo in questo momento sia rappresentato dallo scontro di natura settaria all’interno dell’Islam, e che ad alimentarlo sia soprattutto l’Arabia Saudita, attraverso il wahabismo e il salafismo combattente nella regione. Questo in funzione anti-iraniana, ma soprattutto per garantire la sopravvivenza della casa regnante saudita. Teheran invece non ha particolari timori riguardo ad Israele o agli Stati Uniti, che ritiene avversari politici razionali, in grado di relazionarsi a livello negoziale.
Come viene percepito il ruolo europeo a Teheran?
C’è stata una forte delusione sull’Europa, che è vista come un attore incapace di esprimere una politica indipendente. In particolare, Teheran si rende conto che l’Europa tende andare al traino di alcune cancellerie, siano esse gli Stati Uniti, oppure le singole grandi potenze europee: Germania, Gran Bretagna e Francia. Viene percepita dunque la mancanza di una capacità autonoma di definire la politica estera a livello delle istituzioni sovranazionali di Bruxelles.