Come funzionerà il piano “liberista”, in via di predisposizione da parte degli 80 esperti consiglieri di Trump, per finanziare i nuovi investimenti infrastrutturali nell’economia statunitense?
Qualunque investimento infrastrutturale è finanziabile mediante ricorso a due forme di capitale: debito (apportato dai creditori, come le banche, attraverso operazioni di lending) ed equity (capitale di rischio apportato dagli azionisti). Ogni progetto, per poter essere finanziato, deve poter generare flussi di cassa prospettici in grado di ripagare i costi operativi, gli interessi (e il capitale) sul debito bancario contratto e i dividendi da distribuire agli azionisti che hanno apportato le proprie risorse di denaro in forma di equity.
La previsione dei flussi di cassa prospettici di una nuova infrastruttura è resa ardua dalla difficoltà di prefigurare, con largo anticipo (spesso, a 20-30 anni di distanza) i prezzi ed i tassi di utilizzazione del servizio di pubblica utilità che sarà erogato agli utenti. Il rischio di fluttuazione dei flussi di cassa non può essere assorbito dalla banca finanziatrice e richiede quindi l’apporto di equity da parte di uno o più soggetti privati. Maggiore il rischio, più elevato sarà l’ammontare di equity richiesto per finanziare l’opera. Tipicamente, le proporzioni di debito ed equity da utilizzare sono 5 a 1: è la cosiddetta leva.
Per 1000 dollari (investimento per costruire l’infrastruttura) da finanziare, occorrerà contrarre debito bancario per 800 dollari e chiedere ai soggetti privati-azionisti di apportare 200 dollari nella forma di equity. In questo contesto, occorre rammentare che nell’attuale mercato dei capitali il tasso di interesse da pagare su un prestito bancario è pari a circa il 5% e il tasso di remunerazione (mediante pagamento di dividendi) da garantire ad un privato azionista è circa del 10%. Il capitale di equity, essendo più rischioso, richiede il doppio della remunerazione minima attesa.
La prima modalità di finanziamento proposta da Trump per sostenere nuovi impieghi in infrastrutture è il credito d’imposta. Tale meccanismo prevede che il soggetto privato che liberamente scelga di diventare azionista di una società di progetto (incaricata di organizzare la realizzazione dell’infrastruttura) apportandovi capitale di equity riceva in cambio dallo Stato un credito sulle tasse da corrispondere sugli utili prodotti dalla società medesima commisurato all’82% del capitale conferito. La disponibilità di un credito d’imposta (da utilizzarsi per compensare debiti con l’erario, diminuire le imposte dovute o ottenerne il rimborso) produce un duplice effetto positivo per la società di progetto: 1) il privato azionista tende a ridurre le proprie pretese di rendimento, contribuendo a diminuire il costo delle fonti di finanziamento dell’opera in capo alla società; 2) la liberazione di risorse finanziarie (non più destinabili al pagamento di dividendi) aumenta i flussi di cassa utilizzabili per servire il debito bancario (mediante pagamento degli interessi periodici e capitale nominale a scadenza), rendendo il progetto maggiormente “bancabile”.
L’amministrazione Trump ritiene di poter neutralizzare (ovvero recuperare) l’effetto negativo di detto credito d’imposta sotto forma di minori entrate fiscali grazie ai maggiori introiti risultanti da altrettanti fonti di fiscalità collettiva: a) il pagamento di imposte incrementali sul reddito da lavoro da parte dei nuovi occupati nel settore delle infrastrutture; b) il pagamento di imposte incrementali sul reddito d’impresa da parte dei contractors chiamati a costruire le nuove opere. È stato calcolato che il meccanismo del riconoscimento del credito d’imposta sarà perfettamente “finanziato” (ovvero bilanciato) a livello federale dal combinato disposto delle attese di nuove entrate fiscali. L’effetto netto sarà un incremento del Pil e dell’occupazione nazionali, nonché della dotazione infrastrutturale del Paese a supporto delle attività produttive delle imprese americane.
La seconda modalità di finanziamento che Trump prevede di mettere a disposizione dei privati affinché gli stessi accettino di investire nella realizzazione di nuove opere infrastrutturali consiste nella creazione di una banca per le infrastrutture. Non si tratta di un’idea totalmente nuova in quanto già il governo canadese ha annunciato la nascita, nel corso del 2017, della Canadian Infrastructure Bank con il compito di contribuire al finanziamento del piano di investimenti nel settore infrastrutturale dell’ordine di 132 miliardi di dollari entro il 2028. L’idea canadese è di attrarre nel settore 4 dollari di capitali privati per ogni dollaro investito dal governo (di fatto finanziando con risorse pubbliche il 20% di un nuovo investimento infrastrutturale mediante l’acquisto di partecipazioni in società di progetto, l’erogazione di prestiti o il rilascio di garanzie e lasciando che il restante 80% sia sostenuto da investitori privati).
L’idea di Trump non è dissimile da quella applicata, seppure in un’intera area continentale (Asia e Pacifico), su iniziativa della Cina, con la costituzione nel 2015 dell’Asian Infrastructural Investment Bank, pronta a concorrere con le altre istituzioni finanziarie multilaterali nel finanziare la modernizzazione di strade, ferrovie, servizi di telecomunicazione, accesso all’energia elettrica dei 57 Paesi aderenti. Non è poi così lontana anche dalla ratio del Piano Juncker, lanciato dalla Commissione Europea e reso operativo per il tramite della Bei, con lo scopo di sostenere (con 315 miliardi di euro) la crescita economica nei Paesi Eu senza ricorrere all’emissione di nuovo debito pubblico permettendo ai privati di prendere parte ad operazioni altrimenti finanziariamente insostenibili.
Più specificamente, la banca cui Trump sta pensando potrebbe contare, tra le passività, su un patrimonio (nella forma di equity) di soli 25 miliardi di dollari (da conservare come cuscinetto di cassa nell’attivo), i quali – sfruttando il classico meccanismo della leva finanziaria – consentirebbero la raccolta sul mercato dei capitali di altro denaro nella forma di obbligazioni da collocare presso il pubblico degli investitori privati per 250 miliardi di dollari (il rapporto di leva sarebbe così di 1 a 10). La banca avrebbe quindi il ruolo “strategico” di convogliare il risparmio privato in impieghi in nuove infrastrutture. Nell’attivo di bilancio della banca vi sarebbe infatti spazio per svolgere attività di lending a società di progetto o per acquistarne partecipazioni per 250 miliardi di dollari. In sostanza, una piccola dotazione finanziaria federale genererebbe un volano di prestiti al settore infrastrutturale 10 volte superiore. Peraltro, gli investitori retail ed istituzionali, attratti dall’investimento negli strumenti di raccolta obbligazionaria della banca, potrebbero beneficiare di tassi di interesse più elevati rispetto a quelli dei titoli del Tesoro americano.
Un elemento interessante che accomuna entrambi i meccanismi di finanziamento proposti da Trump è la promozione del Partenariato Pubblico-Privato (Ppp), quale forma di cooperazione di lungo termine tra soggetto pubblico (concedente) e soggetto privato (concessionario, chiamato ad intervenire con propri capitali) in cui responsabilità e rischi relativi alla costruzione di un’infrastruttura di pubblica utilità sono ripartiti tra gli stessi a seconda della forma contrattuale adottata. Il Ppp supera due importanti limiti connaturati al settore pubblico: la scarsità delle risorse finanziarie e la mancanza di adeguate capacità manageriali. Si tratta, evidentemente, di un vantaggio insito nella proposta repubblicana considerato il fatto che proprio la progressiva riduzione dei trasferimenti pubblici ed i vincoli posti alla spesa per investimenti ai fini della riduzione del debito pubblico hanno spinto, nel corso del tempo, molti governi nazionali al finanziamento di nuove infrastrutture mediante Ppp (con il connesso uso di capitali privati). È chiaro che la natura keynesiana dello schema finanziario proposto dai democratici va in direzione opposta rispetto alla contrazione della spesa pubblica e alla promozione delle risorse dei privati mediante il ricorso a forme cooperative quali il Ppp.
Importante perché la banca per le infrastrutture di Trump funzioni è garantire al suo interno una governance indipendente (ad esempio scegliendo consiglieri professionalmente esperti e senza conflitti di interesse con l’amministrazione federale) e favorire una selezione “ragionata” dei progetti buoni da finanziare adottando le migliori prassi di mercato (ad esempio, la Value for Money Analysis, con cui si comparano costi, benefici e rischi del ricorso al Ppp rispetto alla normale realizzazione dell’opera da parte del soggetto pubblico in assenza del coinvolgimento di privati).
Volendo collegare proposte e ragionamenti della nuova amministrazione Trump a quanto accade nel nostro Paese, la futura banca per le infrastrutture è destinata ad operare nel solco delle responsabilità recentemente attribuite ad una nostra “antica” istituzione da sempre impegnata nel sostegno alle opere di pubblica utilità, la Cassa depositi e prestiti (Cdp), con il suo riconoscimento (con la legge di stabilità del 2016) di Istituto Nazionale di Promozione. In particolare, con il piano industriale 2016-2020 Cdp intende mobilitare a favore del settore infrastrutturale di pubblica utilità italiano risorse proprie per 24 miliardi di euro (con la previsione di un effetto moltiplicativo di 2.8x associato all’attrazione di risorse esterne per ulteriori 44 miliardi di euro). Dette risorse saranno dedicate (mediante, ad esempio, attività di lending a società di progetto ed acquisto di partecipazioni in Sgr operanti fondi di investimento infrastrutturali) ad ammodernare il parco infrastrutturale esistente, a promuovere la diffusione del Ppp, ad ampliare le soluzioni finanziarie innovative per l’avvio di nuovi progetti (es. project bonds). Le risorse proprie di Cdp sono raccolte in due modi: il collocamento di strumenti di “raccolta postale” (buoni fruttiferi postali e libretti postali) e il collocamento, sui mercati finanziari, di emissioni obbligazionarie. La prima forma di raccolta finanzia gli impieghi della gestione separata; la seconda gli investimenti della gestione ordinaria.
Come può osservarsi, il Piano finanziario per le infrastrutture di Trump non si discosta di molto – per obiettivi, idee e strumenti – da quanto già concepito, sperimentato ed applicato in Italia. L’American Dream può sostenersi e rinnovarsi anche “prendendo a prestito” la creatività, la cultura e l’impegno dei cittadini di quei Paesi che hanno contribuito, nel tempo, alla sua affermazione.
La prima parte dell’analisi si può leggere qui