Con la sua visita in Russia, e l’incontro fissatogli da Putin al Cremlino per martedì, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si trova in una situazione che più in vista non potrebbe essere dopo la svolta della politica americana nel Medio Oriente. Dove il presidente Donald Trump, diversamente dal predecessore Obama, non ha voluto lasciare impunito l’ennesimo crimine compiuto dal dittatore siriano Assad facendo lanciare bombe chimiche contro la sua popolazione “ribelle”.
Proprio in coincidenza con la presenza di Mattarella a Mosca, Putin incontrerà anche il segretario di Stato americano, ma il presidente italiano sarà il primo interlocutore europeo del Cremlino dopo la svolta statunitense in una regione che interessa da vicino l’Unione Europea, non foss’altro per i guai che le provengono da quella martoriata regione in termini di sicurezza e di immigrazione. Quella di Mattarella non va scambiata in questa drammatica circostanza per una visita, di sia pur alta rappresentanza, fortuitamente coincidente con un delicatissimo momento della politica internazionale.
Dell’attuale capo dello Stato si potrà anche dire, come fa un suo amico economista che non per questo non lo stima o gli vuole meno bene, che ha una certa difficoltà quando si trova alle prese con problemi finanziari, ma non che non abbia pratica di politica estera. Egli se n’è sempre interessato anche prima di arrivare al Quirinale, contribuendo anche a gestirla dal governo prima come vice presidente del Consiglio di Massimo D’Alema e poi come ministro della Difesa dello stesso D’Alema e del secondo governo di Giuliano Amato, negli anni più roventi della crisi nei Balcani.
Il presidente Mattarella ha quindi le cognizioni e le conoscenze giuste per far fare una bella figura al suo Paese in questi pericolosi frangenti internazionali, ben consapevole che l’Europa non possa e non debba essere ridotta alla funzione di “spettatrice”, per ripetere un aggettivo usato con delusione pari alla preoccupazione nell’ultima riunione del Consiglio dei Ministri dal renziano Graziano Delrio.
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La sua maggiore esposizione internazionale potrebbe riuscire utile a Mattarella anche dopo la visita in Russia, quando tornerà alle prese con la solita, intricata situazione politica interna, continuamente agitata da una permanente campagna elettorale. Tale è quella in corso dalla fine del referendum sulla riforma costituzionale, anche se tutti fingono di non accorgersene e voltano lo sguardo dall’altra parte.
D’altronde basterebbero e avanzerebbero già le votazioni amministrative dell’11 giugno e i ballottaggi del 25, riguardanti circa dieci milioni di elettori sparsi un po’ per tutta Italia, per tenere alta la tensione, a cominciare dal Pd. Dove pure Matteo Renzi contava e conta ancora di chiudere il capitolo delle incertezze a fine aprile, con la sua ormai scontata rielezione a segretario nelle primarie aperte ai dichiarati elettori del partito: anche quelli che poi voteranno magari per gli scissionisti del Dp, interessati a irrobustire intanto le minoranze di Andrea Orlando e di Michele Emiliano per continuare a complicare la vita all’ex presidente del Consiglio.
Alle elezioni amministrative di giugno seguirà un’estate per niente tranquilla, durante la quale gli ormai ineludibili appuntamenti parlamentari con le tante, persino troppe proposte sul tappeto per quanto meno armonizzare, come si attende Mattarella, le leggi elettorali della Camera e del Senato rimaste in vigore dopo i tagli apportati dalla Corte Costituzionale, potrebbero diventare in ogni momento il pretesto giusto per interrompere la legislatura. Alla cui prosecuzione sino alla scadenza ordinaria dell’anno prossimo è interessato, per diverse e persino opposte ragioni, un fronte politico molto meno vasto delle apparenze.
Quello attratto dalle elezioni anticipate è un fiume carsico dove confluisce ogni giorno acqua nuova, proveniente soprattutto dalla paura di mandare i cittadini alle urne subito dopo l’approvazione di una pesantissima legge finanziaria, da varare quando le autorità europee di vigilanza non avranno forse più remore derivanti dalle incertezze delle attuali vigilie elettorali in Francia e in Germania.
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Pochi osano più o meno ipocritamente parlarne in pubblico, ma chi frequenta stanze e corridoi dei palazzi parlamentari sa di quella specie di oggetto misterioso di cui mormorano gli specialisti della legge finanziaria e che si chiama esercizio provvisorio. Se ne occupa un comma dell’articolo 81 della Costituione che, diversamente da altre parti modificate nel 2012, i cosiddetti eurocrati non sono riusciti a far cambiare negli anni del loro maggiore potere, che furono quelli del governo tecnico di Mario Monti.
Quel comma dell’articolo 81, studiato per affrontare le emergenze, elettorali o d’altro tipo, risultate d’impedimento all’approvazione entro dicembre del bilancio annuale, cioè ordinario, prevede il ricorso per legge al cosiddetto esercizio provvisorio “per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi”. Durante i quali non si può spendere, mese per mese, più di un dodicesimo di ciò che si è speso nell’esercizio precedente, per cui non si rischiano in quel periodo procedure europee di cosiddetta insolvenza, possibili invece con una normale legge finanziaria che abbia l’inconveniente di non corrispondere alle attese dei vigilanti.