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Ben fatto, cari colleghi (candidati) Mineo, Mucchetti e Sechi

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, l’editoriale di Pierluigi Magnaschi sul quotidiano Italia Oggi di sabato scorso

Ha suscitato molto interesse, e talvolta anche scalpore, la notizia che alcuni giornalisti si sono candidati per entrare in parlamento. La prima cosa da sfatare è che essi siano tanti. Essi invece sono pochissimi. Si contano sulle dita delle due mani. Per esempio, gli avvocati sono almeno venti volte tanti. E ancora di più gli insegnanti. Per non parlare dei medici o degli imprenditori.

I giornalisti candidati sembrano tanti perché sono visibili, dato che, spesso, entrano nei salotti delle case italiane dove sovente si affacciano dai dibattiti televisivi, oltre che essere noti ai loro lettori. D’altra parte, i partiti scelgono i giornalisti proprio perché sono conosciuti. I partiti infatti sperano che la notorietà dei giornalisti da essi raccolta contribuisca a rastrellare voti che, nel caso delle grandi vedette televisive, è sicuramente vero, mentre per i columnist seri o seriosi è tutto da dimostrare.

Ma su queste candidature si è sviluppato un dibattito parallelo a quello dei magistrati che scendono in politica. Un dibattito improprio e assolutamente fuorviante perché le due categorie professionali sono, a questo riguardo, assolutamente non confrontabili.

Chi dice (e io sono fra questi) che un magistrato può entrare in politica, ai sensi dell’opportunità e dello stile, solo se si dimette dalla magistratura, afferma un principio evidente che parte dal fatto che un magistrato deve, non solo essere, ma anche apparire imparziale. A nessuno che abbia certe idee politiche (o che non ne abbia alcuna) può far piacere sapere di essere inquisito o giudicato da un magistrato che notoriamente (per essersi candidato in un certo partito) ha idee politiche opposte alle sue. Un magistrato che si candida diventa infatti, per questa sola sua scelta, di parte, cioè è l’esatto opposto di ciò che un magistrato dovrebbe essere.

Ben diversa è la condizione di un giornalista. Premetto, per evitare equivoci, che non mi candiderei in parlamento nemmeno sotto tortura, perché mi piace il mestiere che faccio. Ma, a parte sconsigliare questa scelta, non ho nulla da eccepire nei confronti di un collega che volesse candidarsi. Un giornalista infatti può essere di parte senza bisogno di smettere di essere giornalista. Anzi, storicamente, il giornalismo è nato come giornalismo di parte. La differenza fra giornalista e magistrato è che un giornalista che non ci piace può essere punito non acquistando il giornale sul quale scrive, o il libro che redige o la trasmissione nella quale compare. Il giudice naturale invece te lo devi sorbire.


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