L’ultimo sgarbo di Mosca verso Washington è l’annullamento di un accordo intergovernativo di cooperazione sulla lotta contro il traffico di droga e il crimine. L’intesa firmata nel 2002 “non risponde più alla realtà odierna e ha perso la propria funzione”, recita la nota del governo russo che riporta l’ordine firmato primo ministro Dmitri Medvedev.
Passati quindi i tempi in cui gli statunitensi dovevano fornire assistenza e sostegno finanziario ancora provati dalla crisi finanziaria delle fine degli anni Novanta. “Stiamo dicendo addio alla dipendenza dalla potenza numero uno”, riassume il concetto il deputato Alexi Pushkov in un tweet citato dall’agenzia Reuters.
La decisione è l’ennesima rottura dal ritorno di Vladimir Putin alla presidenza la scorsa primavera. Il nuovo corso putiniano guarda a un ruolo di primo piano per la Russia nel palcoscenico internazionale e si concentra sulle possibili minacce esterne, Stati Uniti inclusi.
È proprio con Washigton che ci sono stati gli scontri più duri culminati a dicembre con l’approvazione della legge che vieta l’adozione di bambini russi agli statunitensi. La norma è considerata la rivalsa russa contro la legge che impone sanzioni contro i funzionari russi accusati per la morte in carcere dell’avvocato Sergei Magnitsky e segue l’imposizione della registrazione come agenti stranieri per le organizzazioni che ricevono finanziamenti dall’estero, considerata un modo per intimidire chi si occupa di tutela dei diritti umani.
Sempre in risposta alla cosiddetta legge Magnitsky Mosca ha stilato una lista di funzionari statunitensi accusati di aver violato i diritti umani. Tra questi l’ex capo del carcere di Guantanamo, l’ammiraglio Jeffrey Harbeson cui nelle scorse settimane fu negato il visto d’ingresso.