Si dice che Gustavo Zagrebelsky sia preoccupato dal rischio di deriva autoritaria che sta correndo la Francia (la sfida finale per l’Eliseo è stata tra due candidati che hanno preso meno del venticinque per cento dei voti!). Infine, si dice che tutti quelli che… il ballottaggio non funziona quando ci sono tre poli, si stiano domandando perché invece funziona quando ci sono addirittura quattro poli (e mezzo).
Ps. Diversi eminenti professori hanno spiegato che i nostri cugini d’oltralpe dovevano scegliere un organo monocratico (il presidente della Repubblica), e non un organo rappresentativo. Lo sapevo, ma restano le virtù di un sistema elettorale, qualunque esso sia, che produca un vincitore e un perdente il giorno dopo il voto.
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Leggo per legittima difesa è un celebre e magnifico aforisma di Woody Allen. Sarebbe grandioso se il testo definitivo della legge sulla legittima difesa imponesse la sua affissione nelle aule parlamentari e negli uffici pubblici, nelle scuole e negli ospedali, nelle sedi dei partiti e dei sindacati, nei bar e nelle osterie, nei teatri e nei cinema, nei locali notturni e negli alberghi, nelle carceri e negli ospizi, nelle banche e nelle fabbriche, negli stadi e nelle palestre, nelle redazioni dei giornali e negli studi televisivi. E, ovviamente, anzitutto nelle case degli italiani.
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Definito dal critico letterario Frederick Jameson come il più grande scrittore di fantascienza, è stato paragonato a Charles Dickens e a Franz Kafka per il suo umorismo agghiacciante, mentre le trame surreali dei suoi romanzi gli hanno fatto guadagnare il soprannome di Salvador Dalì della penna. Ma Philip K. Dick non ha bisogno di presentazioni particolari. È infatti universalmente noto per essere l’autore di Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? (1968), a cui si è ispirato il film di Ridley Scott Blade Runner, ormai un cult della cinematografia mondiale. Come racconta Anthony Peake nella sua avvincente biografia (Philip K. Dick. L’uomo che ricordava il futuro, Gremese, 2017), Dick non avrebbe però fatto in tempo a godersi i riflettori del trionfo, stroncato da un ictus alla vigilia della prima del film nelle sale americane (25 giugno 1982).
Nato a Chicago nel 1928, ci ha lasciato centoventi racconti brevi e quarantaquattro romanzi. Ancora oggi è l’icona di una devota comunità di fan sparsi in tutto il pianeta, che si autodefiniscono scherzosamente “Dickheads” (gioco di parole basato sul suo cognome e sul termine “dick”, cioè pene). Fan che stanno aspettando con fanatica trepidazione (come chi scrive) di vedere sullo schermo Blade Runner 2049, il sequel della pellicola di Scott affidato alla regia di Denis Villeneuve che ieri è stato presentato a Los Angeles (in Italia uscirà in autunno).
Pochi scrittori, sottolinea Peake, avrebbero pensato di plasmare un eroe da una muffa gelatinosa nativa di Ganimede, la luna di Giove. Remininiscenze bibliche e scientifiche, alieni e terrestri, Spinoza e Platone, Dio e Satana: la sua mente vulcanica se ne serve per creare originali scenari metafisici, aprendo la strada a stili di scrittura non convenzionali, alternando il punto di vista dei diversi personaggi del romanzo, così da disorientare deliberatamente il lettore. Un tecnica collaudata da Dick nelle “Confessioni di un artista di merda” (1975), l’unica opera pubblicata mentre era ancora in vita. Una vita piena di amori travolgenti e di episodi misterosi, sul filo della paranoia e del misticismo (era peraltro affetto da una lieve forma di schizofrenia). Notte dopo notte, restava seduto davanti alla tastiera della sua macchina da scrivere, cercando di attingere a quel vasto deposito di allucinazioni che si formava grazie anche all’assunzione smodata di sostanze psicotrope. Un prodigioso ritmo lavorativo da cui nasceranno capolavori come Modello due (1953), Minority Report (1956), Ricordiamo per voi (1966), la Trilogia di Valis (1981), La trasmigrazione Timothy Archer, che saranno saccheggiati dagli Studios hollyvoodiani. Philip K. Dick, l’uomo che ricordava il futuro. Benvenuti nel suo mondo visionario.