Intervento pubblicato sul numero di febbraio della rivista Formiche
Arriviamo alla nuova legislatura in un contesto di cambiamenti rilevanti che investono formazioni politiche per le quali si può affermare che la forma è sostanza. La politica postmoderna e la democrazia del pubblico, nate in ambito anglosassone, si sono trasferite e hanno largamente investito anche le formazioni politiche di un Paese di lunga tradizione partecipativa quale il nostro. L’Italia del partito (sempre meno) di massa novecentesco vede irrompere sulla scena formazioni partitiche personalizzate e “movimenti rizomatici”. E’ una situazione di “interregno”, tipicamente postmoderna (e, sotto un certo profilo, sempre più postdemocratica), in seno alla quale convivono partiti dall’organizzazione differente, per cui le strutture organizzative si rivelano cosi decisive – e utili ai fini della loro classificazione – da farci parlare, giustappunto, di una forma che si rivela, per tanti aspetti, sostanziale.
Assistiamo alla crisi del partito personale (che aveva celebrato, su sponde antitetiche, i suoi fasti con Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro) nel suo paradigma più “classico”; ma i processi di personalizzazione, naturalmente, restano e si estendono. E si rivelano destinati a continuare a pesare, e a esercitare un’influenza durevole, seppure in forme differenti, come ha mostrato chiaramente la campagna elettorale, nel corso della quale il paradigma della politica personalizzata è stato declinato secondo formule e modalità evolutive e adattative. Lo evidenzia la presenza nel contrassegno della lista del proprio nome da parte di Mario Monti e Antonio Ingroia, ovvero di figure portatrici di culture politiche (il primo “tecnico” per antonomasia, il secondo riconducibile, per taluni versi, alla sinistra radicale o, perlomeno, alleato con vari suoi esponenti) che dalle sirene della personalizzazione dovrebbero rifuggire.
Ed è il caso di Pier Luigi Bersani, che ha individuato nei partiti personali quasi l’espressione di un male ontologico e clinico (assimilandoli a una metastasi tumorale), ma la cui dimensione di leader (seppure di tipo consensuale) è stata un autentico leitmotiv della campagna, dando così vita a una forma di “personalizzazione moderata”. Per non parlare, ma qui si accede a una forma di cesarismo internettiano, del Movimento 5 Stelle, impensabile senza Beppe Grillo e il suo uso verticistico e monocratico del web (tanto da generare durissime diatribe interne e alimentare un triste eterno ritorno della politica, vale a dire il ricorso alle espulsioni, non appena qualcuno dei militanti ha invocato una maggiore democrazia interna al “partito-non partito”). In buona sostanza, dai processi di personalizzazione non si torna indietro, e vale anche per chi si dichiara figlio di una cultura politica contraria all’immagine. Perché è il postmoderno, bellezza! E non si scappa…
Il berlusconismo, subcultura politica che ha esercitato un’influenza considerevole nel corso degli ultimi decenni di vita italiana, ha esaurito la sua spinta propulsiva. Ma resiste, e le tendenze culturali (e sottoculturali) di cui e stato un catalizzatore (e anche un produttore) non si cancellano con un tratto di penna; e saranno comunque, insieme a Berlusconi e alla sua modalità di incarnare un certo “cesarismo catodico”, destinate a operare (e pesare) anche nel corso della nuova legislatura. Contrapposto all’immaginario berlusconiano, ha fatto il suo ingresso definitivo nel novero delle subculture politiche nazionali pure il “giustizialismo”, il quale ha portato il tema della questione morale, che altrove verrebbe considerato quale articolazione della dimensione prepolitica, al centro della battaglia. Ma, a rimarcare ancora una volta l’anomalia italiana, quella che costituisce un’urgenza e una tematica terribilmente seria viene convertita in una issue genericamente politica non di rado all’insegna di toni sui generis e forzati.
L’uno e l’altro, berlusconismo e giustizialismo, hanno inoltre ribadito la centralità della Tv, o quantomeno la sua notevole rilevanza, nell’orientamento dell’opinione pubblica. In un’accezione meno lineare e immediata che nel passato prossimo, e lasciando spazio – vale soprattutto per il fronte della “lotta alla casta” – alla comunicazione politica 2.0 e ai social media, ma confermando quanto la videopolitica rimanga significativa e importante. La legislatura sarà, dunque, dominata da un cleavage che percorre sempre maggiormente il dibattito pubblico nazionale e lo sta riorientando di fatto, ovvero la contrapposizione tra riformismo e populismo, o meglio tra riformismi e populismi (al plurale). Buona parte delle tematiche e delle manifestazioni dell’antipolitica pare infatti avere trovato collocazione all’interno di questo filone populista, che ospita, invece, solo una parte di quell’antipartitismo che rappresenta un motivo ricorrente (ed eterno) della polemica politica italiana (e occidentale). Questa coppia oppositiva non sostituisce destra e sinistra, ma le ridefinisce parzialmente, cosi come ne viene trasfigurato il bipolarismo italiano in versione muscolare a cui ci siamo abituati nel corso di questi anni. Una parte delle forze politiche riproporrà, dunque, l’arma della delegittimazione (vecchissima e, al tempo stesso, sempre rinnovata) degli avversari (anzi, dei “nemici”), in un contesto nel quale non è avvenuta la semplificazione del quadro politico.
Mentre, per quelle responsabili, la priorità dovrà consistere nel collocare il legittimo conflitto politico nell’alveo di una dialettica da “Paese normale” e sullo sfondo della condivisione delle regole (da scrivere al più presto) e dei valori di riferimento. Centrosinistra e centro – con quanti vorranno a sinistra e destra dell’emiciclo – avranno, quindi, il compito, assai delicato, di stabilire le condizioni per assicurare il funzionamento al meglio della democrazia parlamentare italiana e per garantire le condizioni di governabilità (altra issue che si configura come essenziale e quale vera e propria componente della cultura politica dell’Italia contemporanea).