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Perché gli Stati Uniti tornano in Afghanistan

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L’America torna in Afghanistan, militarmente e non più soltanto diplomaticamente e con l’arma degli aiuti economici e dei consigli politici. C’era stata, in qualche modo, per decenni, prima fornendo indirettamente armi e strutture belliche per appoggiare i ribelli impegnati a combattere la presenza dominante dell’Unione Sovietica, che il presidente del momento, Ronald Reagan, non era disposto a tollerare perché la considerava una minaccia agli equilibri della Guerra Fredda.

Per fare questo, Washington era disposta ad appoggiare tutti i movimenti, le forze partigiane che combattevano l’Armata Rossa e che erano prevalentemente e quasi unicamente estremisti islamici, precursori degli attuali Al Qaida e Isis. Non a caso fra i combattenti integralisti c’era, di persona, Osama Bin Laden.

L’appoggio Usa fu decisivo, Mosca si arrese e il suo ritiro da Kabul fu il primo atto della dissoluzione della Superpotenza sovietica e del crollo del sistema comunista. Non a caso il primo reparto militare russo a ritirarsi dalle montagne afghane e a rientrare in patria accadde mentre il presidente Reagan si trovava in visita a Mosca. In Afghanistan però le cose andarono in modo diverso. Perché, cacciata l’Armata Rossa, la resistenza gettò la maschera e si formò in una formazione domestica che prese il nome di talibani, che conclusero vittoriosamente la loro marcia su Kabul in modo simile a quella che molti anni prima aveva portato trionfalmente i vietmin a Saigon.

E l’America si sentì obbligata a tornare in campo, questa volta direttamente subito dopo la strage terroristica di New York. La decisione fu del presidente George W. Bush e mirava a far sparire dall’Afghanistan i terroristi internazionali attraverso l’abbattimento del regime talebano, dopodiché Washington ritirò gran parte delle sue forze per decisione di Barack Obama. E arrivò una nuova delusione perché, mentre Al Qaida e Isis scatenavano la loro offensiva su scala internazionale, i talebani ripresero le armi puntando alla riconquista del potere a Kabul. Senza il totale successo della guerra precedente, ma contribuendo a rendere insicuro il nuovo governo appoggiato da Washington.

Così, mentre il mondo guardava e guarda all’Iraq, alla Libia, allo Yemen e soprattutto alla Siria, riconquistavano terreno i talebani anche con l’appoggio esterno dei loro fratelli di fede in Pakistan. Siamo tornati dunque indietro di una trentina d’anni e la stabilità è ancora più un sogno che un obiettivo. La generosa intuizione di Obama si è rivelata utopistica e adesso l’arrivo di Donald Trump con i suoi proclami elettorali all’insegna di “America First” comincia a mostrare i suoi effetti. In questi giorni, i militari che il nuovo presidente ha in larga misura insediato nei centri di consiglio e dunque di pressione, hanno ufficialmente richiesto a Trump il permesso di rispedire rinforzi a Kabul e dintorni e soprattutto di riprendere un ruolo attivo, in prima linea e non più solamente come consiglieri all’esercito afghano ufficiale.

Una situazione simile a quella della Siria, però capovolta, perché, a Damasco, Washington appoggia almeno una parte dei ribelli e lavora per l’abbattimento di Assad. Trovandosi così imprevedibilmente dalla stessa parte di Isis e di Bin Laden. I cui seguaci sono rispuntati non solo combattendo le truppe di governo ma anche, almeno in alcune regioni dell’Afghanistan, in concorrenza con i talebani, fino a combatterli apertamente.

L’Afghanistan minaccia di scivolare di nuovo nel caos, compresa una instabilità politica anche nei circoli del potere ufficiale. Per esempio, è ritornato a Kabul uno dei più famigerati signori della guerra dell’era dei conflitti precedenti, Gulbuddin Hekmatyar, definito ai suoi tempi “il macellaio di Kabul”. Adesso parla di pace, ma è stato accompagnato nel ritorno nella capitale da un convoglio di carri armati e altri strumenti di guerra. Gli americani non salutano certo questo ritorno, anche se adornato di pacifismo. È anche per questo che i generali di Washington hanno valutato la necessità di un ritorno in forze, ne hanno deciso la struttura e hanno presentato il documento a Trump, in attesa della sua autorizzazione. Nemico principale ufficiale, i jihadisti che tutto il mondo conosce. Ma il nemico più robusto e attivo, impegnato in una serie di offensive, ha le stesse generalità che tutto il mondo conosce: califfato islamico. Le battaglie sono ridiventate così intense che uomini politici hanno denunciato la carenza di casse da morto.

Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi



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