(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)
Ma Angelino Alfano, appena insorto contro le elezioni anticipate e i danni per miliardi di euro che provocherebbero per il senso di instabilità e la solita speculazione contro i titoli del debito pubblico, non è lo stesso che dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale, il 4 dicembre scorso, auspicò lo scioglimento anticipato delle Camere e le elezioni già entro febbraio? Si, è proprio lui, che era allora ministro dell’Interno e fu quindi preso tanto sul serio, per le sue competenze istituzionali, da mandare su tutte le furie il pur paziente presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che inorridì all’idea che si potesse andare alle urne per rinnovare il Senato col cosiddetto “porcellum” modificato dalla Corte Costituzionale e la Camera con il cosiddetto “Italicum” voluto fortemente dal suo governo ma impugnato dalla magistratura ordinaria e sotto esame dei giudici del Palazzo della Consulta. Che avrebbero potuto mutilarlo, come in effetti avvenne, per cui avremmo rischiato di andare alle urne con regole illegittime, com’era avvenuto già nel 2013 eleggendo il Parlamento col “porcellum” ancora in vigore nella versione originaria, prima della parziale bocciatura della Corte.
L’irritazione del capo dello Stato fu tale che molti ritennero, a torto o a ragione, che fosse stata decisiva per togliere ad Alfano il Viminale nel governo di Paolo Gentiloni col solito sistema della promozione utile alla rimozione, spostando l’interessato alla guida del Ministero degli Esteri: un trasferimento rivelatosi fortunato per il ministero dell’Interno con la scossa datagli dal nuovo titolare: il piddino Marco Minniti. Il quale ha dato per attivismo e competenza l’impressione che prima di lui non ci fosse stato nessuno, specie sul delicatissimo fronte della gestione dell’immigrazione.
La ragione del capovolgimento di posizione di Alfano in materia di elezioni anticipate, viaggiando contromano rispetto a Renzi, è di un opportunismo desolante per la sua evidenza: la presenza nella nuova legge elettorale in cantiere di uno sbarramento del 5 per cento, tedesco come il modello della riforma.
Con questa soglia il partito del ministro degli Esteri neppure nel nuovo nome che si è appena dato di Alternativa Popolare, sostitutivo dell’originario Nuovo Centro Destra, è destinato a non tornare in Parlamento. Il colpo di grazia glielo ha dato Silvio Berlusconi smentendo di volere strappare a Renzi la soglia del 3 per cento, più accessibile agli alfaniani. “Dipendesse da me, la porterei all’8 per cento”, ha detto l’ex Cavaliere vendicandosi della rottura intervenuta con Alfano nell’autunno del 2013, quando l’allora vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del governo di Enrico Letta rifiutò di passare all’opposizione per ritorsione contro la decadenza di Berlusconi da senatore per effetto della cosiddetta legge Severino, dopo la condanna definitiva per frode fiscale.
Renzi sotto certi aspetti è stato ancora più feroce del presidente di Forza Italia rinfacciando ad Alfano la sproporzione fra le postazioni di governo occupate in tre governi – quelli di Enrico Letta, suo e di Paolo Gentiloni – e il modestissimo consenso attribuitogli dai sondaggi: uno schiaffo in piena regola.
Un po’, diciamo la verità, Alfano se l’è cercata, avrebbe commentato Giulio Andreotti. Gli conveniva cercare meno poltrone e più consenso, cominciando da se stesso, cioè occupandosi a tempo pieno del partito fondato tre anni e mezzo fa. Qualcuno nell’allora e ancora Udc aveva anche provato a dirglielo con garbo, ma molto inutilmente.